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L’hostess della nave Achille Lauro: la mia vita segnata dai terroristi

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«Ero stata appena assunta e mi sarei dovuta occupare delle escursioni. Non dovevo essere sulla nave, invece quel giorno sostituii una collega all’ufficio informazioni. Mi avevano assicurato che non sarebbe accaduto nulla e invece successe tutto». Inizia così il racconto di Lucia Cecere, l’unica hostess capace di parlare arabo a bordo della nave Achille Lauro, dirottata da un commando palestinese il 7 ottobre 1985.

Quel giorno quattro uomini del Fronte per la Liberazione della Palestina presero in ostaggio passeggeri e personale della nave chiedendo il rilascio di 50 prigionieri palestinesi. Una crisi che si concluse con l’arresto dei sequestratori e la loro condanna in Italia, dopo un braccio di ferro fra l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi e le forze politiche e militari americane. Durante il sequestro venne ucciso un passeggero, l’americano di origini ebraiche Leon Klinghoffer.

Il documentario Achille Lauro – La crociera del terrore, in onda martedì 7 ottobre, alle ore 21.15 su Sky Crime e History Channel e in streaming su Now, ricostruisce, a quarant’anni esatti dall’accaduto, quel pezzo di storia dando voce ai protagonisti, dai vertici militari americani, al terrorista Abdellatif Fatayer, dalle figlie di Klinghoffer, a Lucia Cecere, la giovane laureata in lingue arabe che fece da interprete e da mediatrice durante tutta la crisi. Il capitolo successivo della sua vita contempla un matrimonio e una figlia. Ora ha 65 anni e vive a Napoli, dove lavora per un’azienda di famiglia.

Signora Cecere, come mai conosceva l’arabo?
«Mi ero appena laureata con una tesi sulla poetessa palestinese Fadwa Tuqan, una delle voci più autorevoli del suo popolo. Raccontava l’intifada, le atrocità della guerra. Stiamo parlando di quarant’anni fa e quelle tematiche sono ancora tristemente attuali».

Come si accorse di cosa stava accadendo?
«Ero alla scrivania dell’ufficio informazioni, vidi un ragazzo dalla pelle scura con un’arma. Subito immaginai fosse un operaio della nave un po’ su di giri, con un fucile del tiro al piattello ma mi accorsi che non sorrideva e che parlava arabo, e cominciai a realizzare».

Cosa successe?
«Mi puntò il Kalashnikov e mi ordinò di raggiungere gli altri in sala ristorante. Lì c’era il pandemonio, gente che piangeva, tremava, pregava. Vidi un ufficiale nascondersi sotto i tavoli, vidi il terrore nella faccia di tutti. Panico e incomprensione. Io li capivo, misero in dubbio la mia nazionalità perché parlavo arabo, dissero che ero un’israeliana. Non so dove trovai il coraggio di tener loro testa. Sapevo a memoria le Sure del Corano, li invitai a pregare, funzionò. Trascorremmo così vari giorni, non so quanti, per me fu un unico interminabile giorno».

Come vi trattarono?
«Con noi c’erano sempre due uomini, diametralmente opposti, un duro che soprannominammo Rambo e un ragazzo giovanissimo, fragile, che aveva perso i genitori e tutta la famiglia nel massacro di Sabra e Shatila. Piangeva».

Ha avuto pietà di lui?
«Un po’ di umana pietà sì, ma l’ho avuta anche degli altri, conoscevo la loro storia, l’avevo studiata, ero impregnata di cultura araba. Dopo questo fatto però l’ho completamente rifiutata, non ho più parlato arabo, mi sono disinteressata al destino del popolo palestinese. Sino a oggi. Quello che sta succedendo mi fa pensare e tornare la paura. Non li ho mai odiati però, quei fatti non hanno cambiato la mia percezione della causa palestinese».

Li ha perdonati?
«Faccio fatica a rispondere. Hanno segnato la mia vita e per questo non riesco a essere clemente e misericordiosa. Avrei potuto avere una vita più serena, invece questa esperienza mi ha reso fragile. Non riesco a perdonare loro il fatto che mi costrinsero a mentire alla moglie di Leon Klinghoffer. Dissi che era in infermeria, avevo intuito cosa era successo ma non potevo creare panico. Ricordo le invettive della moglie quando scoprì la verità».

Ha più incontrato i terroristi?
«Ai vari processi. Anche a quello a Genova sulle cassette di sicurezza svaligiate. Ma non furono loro, i terroristi, ad aprirle; qualcuno approfittò del caos e si impossessò dei gioielli dei passeggeri. Al processo, dalla gabbia, uno di loro mi chiamò. Il mio nome in arabo è Nura. Chiamò Nura e mi paralizzai, non mi avvicinai». 

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5 ottobre 2025

5 ottobre 2025

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