
«Ho studiato l’italiano alla New York University, ma il problema è la pratica: ho cercato di farla per 40 anni con i miei barbieri, uno di Salerno, l’altro che era di Sciacca in Sicilia». Lo storico ex sindaco democratico di New York Bill de Blasio è passato di recente in Italia, un paese che non gli ha dato solo il cognome. Ha fatto tappa a Napoli («sono un grande tifoso del Napoli»), dai parenti («a Sant’Anna dei Gotti, provincia di Benevento, i de Blasio ci sono ancora e siamo molto legati») e a Pavia dove al Collegio Ghislieri ha parlato nella ormai tradizionale Bruno Rossini Lecture. De Blasio che ora insegna alla New York University ricorda che essere sindaco di New York è un po’ come essere il ceo di una grande azienda: «Come sindaco ho avuto 400 mila dipendenti e un budget annuale di oltre 100 miliardi di dollari». Nyc Corporation (non è forse uno dei brand più potenti al mondo?). Lo dimostra anche la guerra che si scatena ogni volta per guidarla, tema al quale de Blasio non si sottrae in questa intervista per il Corriere: «L’indiano Mamdani vincerà le elezioni a sindaco. Perché? È musulmano e socialista, ma non sfrutta mai questi due argomenti. Quando parla affronta sempre un problema concreto della città. L’affitto, il costo dei trasporti, il costo del cibo. E la sua campagna è stata straordinariamente disciplinata e chiara, con proposte audaci come rendere gratuiti gli autobus o congelare gli affitti per un certo periodo di tempo, cosa che a New York abbiamo il potere di fare per alcuni dei nostri appartamenti perché sono regolamentati». D’altra parte Mamdani si contrappone ad Andrew Cuomo, la nemesi di de Blasio. Piccolo retroscena: questo viaggio in Italia era atteso un anno fa, quando scoppiò la bomba del ritiro di Joe Biden a pochi mesi dalle presidenziali Usa poi vinte da Donald Trump. Una situazione che fece richiamare tutti i vertici Dem in un war cabinet.
Visto il suo senso di appartenenza la comunità italiana è stata importante per la tua carriera politica?
«Sì, non tanto nel senso di un sostegno politico, o forse solo in parte. Piuttosto, ciò che ho imparato attraverso l’esempio di mio nonno è stato avere un mio senso di appartenenza culturale che mi ha aiutato a comprendere meglio altre persone di altre comunità. Per moltissimi americani c’è semplicemente la percezione di essere americani. Non esiste un’altra identità precedente. Ma a New York è diverso: è una città di immigrati».
Ci sta dicendo che non è sicuro che gli italiani o gli italo-americani dunque non hanno votato per lei?
«Dal punto di vista politico, certamente ho sperimentato, lungo il percorso, alcune amicizie e qualche forma di sostegno che si sono rafforzate grazie a una comune eredità italiana. Ma non tanto in termini di base elettorale e questo perché la comunità italiana nella città di New York è molto più piccola di quanto non fosse un tempo».
Ridotta o scappata per i costi?
«La comunità italiana che un tempo si trovava nella città di New York si è spostata nelle aree circostanti, nei sobborghi, nel New Jersey, nello Stato di New York, nel Connecticut, ed è diventata anche molto più conservatrice dal punto di vista politico».
Per molti versi New York e l’America stanno vivendo, anche a causa della guerra sui dazi scatenata da Donald Trump, la stessa prospettiva economica dell’Europa: una dimensione di grande incertezza. Qual è il punto di vista degli americani?
«Ciò che preoccupa gli americani sono l’economia, l’inflazione. Per voi il peso della cultura e dell’approccio culturale alla vita è molto importante. È una delle eredità che mi porto dietro anche io. Ma nella testa degli americani c’è principalmente la preoccupazione per i conti di fine mese. Dopo la stagione del Covid che è stata drammatica negli Usa e in particolare a New York, abbiamo avuto il problema delle catene di approvvigionamento e la rapida, intensa inflazione. Quindi c’è stata una crisi emotiva, una crisi sanitaria, ma ciò che le persone si portavano davvero dietro ogni singolo giorno era la crisi economica. E penso che nel 2024 il Partito Democratico, sia Joe Biden che Kamala Harris, abbiano davvero mancato l’importanza di mostrare empatia e di capire quanto profondamente le persone fossero colpite».
Dunque la crisi dei Democratici negli Usa è simile a ciò che sembra emergere anche nella crisi della sinistra in Italia: si è smarrita la capacità di ascoltare?
«In realtà non c’erano idee o proposte nette e chiare che potessero far sentire rassicurate le persone. Ma arrivando al 2025, a New York City per esempio, è l’esatto opposto, nel senso che Zoran Mandani ha detto, in sostanza, che c’era una sola cosa di cui avrebbe parlato: la città non è accessibile, la vita non è accessibile».
Veniamo alla patata bollente della politica americana: che fine ha fatto l’opposizione con Trump? In effetti mentre lei era in Italia il settimanale «The Economist» ha dedicato la copertina alla “fine dell’opposizione in America”. È finita la voce dei democratici o è una lettura troppo europea?
«No, non è finita, con tutto il rispetto per l’Economist. L’opposizione prende forme diverse e se guardiamo oggi ai sondaggi della Nbc Trump è approvato dal 43% delle persone. Il 57%, cioè la maggioranza disapprova. E la disapprovazione riguarda aree importanti, come l’economia e l’inflazione. Credo che in questo momento ci siano le dimostrazioni nazionali contro il governo più importanti, almeno che io possa ricordare e sono in politica da decenni».
Quali sono i nuovi volti da seguire per il prossimo confronto con Trump? Se ce ne sono…
«Certo che ci sono. Per come lo ricordo abbiamo il gruppo più forte di potenziali candidati, o certamente uno dei più forti, dell’ultimo mezzo secolo. Perché ci sono in particolare questi governatori in giro per il Paese che stanno davvero affrontando questo momento. L’esempio più evidente è Gavin Newsom in California, che è stato molto, molto determinato nell’affrontare il trumpismo e sarebbe un candidato molto forte. Ma ce ne sono molti altri: Wes Moore nel Maryland, J.B Pritzker in Illinois, Andy Bashir in Kentucky».
Lei ha cominciato con Hillary Clinton… erano comunque altri tempi.
«Hillary Clinton è stata una grande leader, non solo una grande candidata. Ora abbiamo grandi candidati».
4 novembre 2025 ( modifica il 4 novembre 2025 | 16:08)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
4 novembre 2025 ( modifica il 4 novembre 2025 | 16:08)
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