Sembra che stiamo parlando di Difesa come se fossimo nel 1939. Grandi piani quinquennali, grandi spese degli Stati, grandi contratti da affidare a grandi imprese che producono solo per gli eserciti, grandi hangar per immagazzinare quel che si produce. Tutto grande. Questi approcci — che si fondano su una cultura di management tradizionale, su regole e su processi basati nel secolo scorso — «erano una volta di moda nell’Unione Sovietica e all’avanguardia nell’industria dell’auto americana negli Anni Cinquanta prima che fosse surclassata dal Giappone negli Anni Settanta», ha sostenuto Bill Greenwalt, un esperto di industria della Difesa, già funzionario del Pentagono, del Congresso e dell’industria del settore americani.
La guerra in Ucraina ha mostrato che questa impostazione, questa difesa a catenaccio, non può più funzionare. I sistemi missilistici per intercettare, i carri armati, i missili che possono colpire le raffinerie russe restano estremamente importanti per un Paese che deve difendersi. Ma la capacità dell’esercito di Kiev di avere fermato l’invasione russa e di tenere l’armata d’invasione bloccata su una linea del fronte nonostante getti al macello migliaia e miglia di uomini non sta in quello. La chiave — si dice — sono i droni. Certamente è così. Ma dietro di essi c’è un salto enorme dal punto di vista mentale che deve interessare l’intera industria della Difesa in Occidente. E ancora non sembra del tutto percepita dai governi.
Cambiamenti
I prossimi 23 e 24 ottobre si terrà un Consiglio europeo nel quale verrà, tra altri temi, discusso il merito della Difesa della Ue nei confronti della minaccia percepita da parte della Russia di Putin. Si discuterà dei famosi muri anti-droni da alzare sul fianco Est della Ue ma anche, come insiste la presidente del Consiglio Meloni, a Sud. E si discuterà anche di procurement, di come e a chi allocare gli investimenti pubblici militari. Forse sarebbe opportuno che si abbandonassero vecchi modi di azione: di fronte alle guerre preparate e scatenate da nazioni e soggetti bellicisti, non ci si è resi solo conto che le guerre sono tornate ma anche che il modo di condurle è profondamente cambiato. Segni di questa consapevolezza ci sono, forse però non sufficienti.
Il generale Carsten Breuer, il numero uno dell’esercito tedesco, ha notato che in Ucraina c’è una gara, tipo gatto-topo, tra le innovazioni e le contro-innovazioni nella guerra. È una situazione per la quale un drone o sistema d’arma ha bisogno di essere modificato e adattato, soprattutto nella parte software, in tempi brevissimi, spesso da una settimana all’altra. Carsten ha dunque detto che si potrebbero fare contratti con le imprese che prevedono la possibilità di modificare in fretta i droni diventati obsoleti per ragioni tecnologiche. Ciò è qualcosa che porta a non accumulare i sistemi nei magazzini ma a puntare su flessibilità e velocità di produzione.
Logiche prevalenti
Non facile, date le logiche prevalenti nei ministeri della Difesa, nelle grandi imprese che dagli investimenti dipendono, dalle regole e dai tipi di contratto. Ma non solo. L’ostacolo maggiore all’adeguamento della produzione per la Difesa alla realtà tecnologica del Ventunesimo Secolo sta nelle scelte fatte dopo la Guerra Fredda e che hanno portato non solo a budget per il settore calanti ma soprattutto a una rigidità estrema nel procurement e in generale nell’industria.
Oggi, gran parte della produzione militare è finanziata dagli Stati con il denaro dei contribuenti. È ciò che fa dire a chi, ad esempio, è contrario al programma di riarmo della Ue che si spenderà per le armi a scapito degli ospedali e della scuola. Un rischio che esiste; ma è un rischio dato proprio dall’approccio rigido, da «Unione Sovietica» come dice Greenwalt.
È che negli anni si sono create grandi società che hanno come business quasi esclusivo le commesse dei ministeri della Difesa. Fanno poco altro, quindi non hanno fonti di reddito se non le commesse pubbliche. Negli Stati Uniti — dove esiste un mercato unico nel settore a differenza che in Europa — nel 1992, appena crollata l’Unione Sovietica, quasi il 75% degli investimenti che andavano alla Difesa era destinato a società commerciali, gruppi che avevano anche attività non legate al militare. Oggi, la loro quota è attorno al 10%: più del 50% va a specialisti della Difesa e il resto a società della Difesa e dell’Aerospazio.
Il livello dei costi
Nel 1993, il segretario americano alla Difesa Les Aspin tenne una riunione, che fu chiamata «Last Supper», l’ultima cena, nella quale parlò di dividendo della pace alla fine della Guerra Fredda. Tagliò di oltre il 60% i fondi per fini militari e disse alla cinquantina di capi delle grandi imprese presenti che non tutte le loro società sarebbero sopravvissute. In effetti, il consolidamento nel settore le ha portate essere, oggi, solo cinque: Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grumman, Rtx (la ex Raytheon).
Significa non solo che questi gruppi si accaparrano gran parte del budget della Difesa ma anche che il loro fatturato e il loro reddito viene in grandissima parte da lì, non hanno o hanno pochissimi altri business. Ciò tiene esageratamente alti i costi, blocca la concorrenza e l’innovazione. Per dire, la Nasa aveva calcolato che per produrre qualcosa come il razzo Space X sarebbero serviti quattro miliardi di dollari: Space X, impresa commerciale diversificata, lo ha prodotto per 400 milioni.
Shyam Sankar, il capo della tecnologia della società Palantir (Difesa ma non solo), calcola che i grandi gruppi della Difesa americani realizzano quasi il 75% del fatturato per scopi esclusivamente militari, quelli cinesi il 27%, il resto in altri settori commerciali. A Pechino hanno forse capito che il mercato funziona meglio e tiene più bassi i costi dei grandi piani. E che non siamo nel 1939.


24 ottobre 2025
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