
Possono sopravvivere tre cucciole di leone, da sole, in un deserto di dune che finisce su un litorale che già dal nome, Costa degli scheletri, suona come un epitaffio? La risposta che a tutti parrebbe scontata l’ha cercata per anni Philip Stander, ricercatore che ha dedicato tutta la sua vita allo studio di quello che abbiamo sempre conosciuto come il «re della jungla», il più grande e letale predatore di erbivori. L’ha inseguita a lungo, fin da quando per la prima volta vide una leonessa su una spiaggia della Namibia e, incuriosito («che diavolo ci fa un leone sulla spiaggia?»), decise di andare a fondo. Iniziò a studiarla, seguendone a lungo i movimenti e scoprendo col tempo l’esistenza di una comunità di grandi felini capace di adattarsi a luoghi aridi, senza vegetazione e con pochissime prede. A distanza di molti anni, la storia è diventata quella di tre leoncine, ritrovatesi prematuramente orfane e senza ancora avere imparato le leggi della vita. Sarebbero mai riuscite a farcela? Come si sarebbero procurate il cibo che era sempre stata la madre a procurare loro?
La risposta Stander alla fine l’ha trovata e l’ha raccontata a Lianne e Will Steenkamp nel film che ha aperto il Gran Paradiso Film Festival, «Lions of the Skeleton Coast», che ha così debuttato per la prima volta in Italia, dopo avere ricevuto numerosi riconoscimenti all’estero. Una storia di resilienza e di adattamento che può essere la metafora di come la natura sa affrontare il cambiamento nella perpetuazione della vita. Le tre leoncine sono costrette ad inventarsi un’altra indole e ad adattare i loro comportamenti innati per potere avere la meglio sulla fame e sul deperimento. Imparando a cacciare come tutti i loro simili giraffe e altri (pochi) animali che trovano in un entroterra povero, con tanta sabbia e pochissima acqua. Iniziando a catturare oche e altri volatili, che non sono propriamente il pasto d’elezione per il leone. E scoprendo, infine, di poter trasformare anche le foche, animali marini, nel proprio cibo. Una anomalia come tante ce ne sono in una natura che va sempre avanti.
Non è un caso che sia stata questa la pellicola scelta per aprire le proiezioni della rassegna dedicata quest’anno alle diverse forme di intelligenza. Resilienza e adattamento sono del resto frutto di un’intelligenza che tendiamo spesso a non riconoscere al mondo animale. Non la riconosciamo per esempio agli asini, tanto che il termine «somaro» è da sempre nel nostro immaginario sinonimo di ignoranza. Anche Carlo Collodi scelse questo animale per evocare la brutta fine che fanno bambini che, come Pinocchio e Lucignolo, scelgono il divertimento sfrenato al posto dello studio. Ma gli asini stupidi non sono. E l’uomo dovrebbe saperlo bene visto che da sempre chiede il loro aiuto, soprattutto quando dall’incontro tra un asino e una giumenta nasce un mulo, animale insostituibile nel lavoro e nel trasporto di merci e materiali, ma dotato di una forte personalità (che ancora una volta tendiamo a banalizzare associandola all’aggettivo «testardo).
Una pratica, quella del trasporto da soma, che verrebbe da considerare antica e desueta, confinata a ricordi di altri tempi, di montagne da valicare e di guerre da combattere. Ma che ancora sopravvive, seppure come brandello di resistenza, in qualche realtà di montagna. E uno dei resistenti è Luciano Ellena, 60 anni, che a Chiusa di Pesio, nel Cuneese, non solo continua a portare avanti un’attività che è sicuramente antica ma che lui per primo vuole dimostrare non essere affatto desueta, trasportando come un tempo merci di ogni genere sulle cime. Lo fa regolarmente, per esempio, per rifornire il rifugio Morelli Buzzi, nel Vallone di Lourousa, diramazione della Valle Gesso, sulle Alpi Marittime. Che per questo è ora conosciuto anche come il «Rifugio dei muli».
Luciano non si limita a portare avanti la tradizione, da orgoglioso mastro mulattiere . Cerca anche di trasmetterla ad altri, cercando persone che possano continuarla e continuare ad accudire anche i suoi amati animali, che essendo ancora giovani ed essendo la specie molto longeva, sopravvivranno più di lui. Ha creato una scuola di formazione, che definisce come un vero e proprio «master». E come tutte le scuole ha come obiettivo primario quello di trasmettere una cultura. Un aiuto arriva dal docufilm di Davide Demichelis e Philipp Landaurer, «I muli in montagna, un’alternativa», prodotto dalla tv franco-tedesca Arte, che prova a dare risalto e dignità a questo tentativo di sfidare la modernità andando laddove la modernità non sempre riesce ad arrivare: i rifugi meno accessibili non possono fare a meno di costosi rifornimenti in elicottero, ma se il tempo non è perfetto l’elicottero non vola. Il muli, invece, non si fermano praticamente davanti a nulla. Lo hanno dimostrato anche alla serata inaugurale del Festival facendo il loro ingresso, assieme a Luciano, in una sala teatrale gremita di gente e di luci accese.
Leoni del deserto e muli di montagna. Due facce di un’unica biodiversità che insegna ad andare sempre avanti. Non ci sono solo loro nel programma del Gpff. Il concorso internazionale propone dieci lungometraggi che riportano immagini e storie di resilienza da tutto il pianeta: la lotta per la sopravvivenza dei leopardi di Mashatu; l’evoluzione di un cucciolo di volpe rossa, unico sopravvissuto della sua famiglia all’attacco di un orso in Kamchatka; lo sguardo sulla natura selvaggia della Transilvania, resa famosa dal Dracula di Bram Stocker e oggi una delle maggiori isole di biodiversità rimaste sul territorio europeo. E tartarughe marine, balene, pulcinella di mare, picchi, aquile e altri ancora che popolano mari e montagne del nostro concorrente. In gara ci sono poi anche otto cortometraggi, in cui è sempre la natura la protagonista.
A decretare i vincitori saranno una giuria gold, di persone che vedranno tutte quante le pellicole, e una giuria popolare, composta da chiunque vedrà i film in presenza o online (sulla piattaforma online del Festival previa iscrizione come giurati). L’annuncio del vincitore avverrà durante l’evento di chiusura del Festival che si svolgerà il 10 agosto alla Rocca di Châtel-Argent a Villeneuve e a cui prenderà parte anche Stefano Accorsi, attore e regista ma anche appassionato ambientalista che con «Planetaria – Discorsi con la Terra» aveva acceso i riflettori sul tema della biodiversità. Cinema e natura, un binomio che ricorre. Da queste parti soprattutto.
29 luglio 2025
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