
Tre crisi spiegano il «fenomeno Zohran Mamdani», l’ascesa politica del 34enne musulmano di origini indiano-ugandesi che può diventare sindaco di New York.
Le tre crisi si chiamano carovita, Gaza, Trump. Formano una specie di tempesta perfetta, rievocano quel che fu il crac dei mutui subprime e il fallimento Lehman nel 2008, disastri finanziari senza i quali forse Barack Obama non sarebbe divenuto il primo presidente afroamericano della storia.
1. Il carovita
Il carovita affligge New York da molti anni, era già impazzito durante la pandemia e peggiorato sotto la presidenza Biden. A New York vi si aggiunge una cronica carenza di alloggi accessibili per le famiglie dei ceti medio-bassi. È quest’ultimo in particolare il tema che Mamdani ha saputo mettere al centro della sua campagna: l’impossibilità per le classi lavoratrici di trovare abitazioni alla portata del loro reddito. Il problema esisteva sotto tanti sindaci precedenti ma si è acutizzato durante le amministrazioni di Bill de Blasio e di Eric Adams, tutti e due democratici. La ricetta «socialista» di Mamdani, a base di blocco dei fitti, blocco degli sfratti, e forti investimenti nell’edilizia popolare, sembra aver convinto molti elettori. In ogni caso questo dell’accesso alla casa è stato un messaggio martellante, ossessivo, nei comizi di Mamdani, e deve aver contribuito a galvanizzare la sua base. Si unisce agli altri «elementi di socialismo» presenti nel suo programma: gratuità totale di asili nido e scuole per l’infanzia; gratuità dei trasporti pubblici; supermercati di proprietà comunale per garantire beni di consumo a prezzi calmierati. Sul tema del socialismo c’è un aggancio con la grande crisi che «costruì» Obama: è dal 2008, dalla bancarotta di Lehman e dalla recessione successiva, che i sondaggi compiuti nelle università di élite come Columbia rivelano questo dato: una maggioranza degli studenti considera il socialismo un sistema economico migliore del capitalismo.
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2. Gaza
Gaza. Questa crisi include tutto ciò che è accaduto in città dal 7 ottobre 2023 in poi. Nel giorno in cui Hamas scatenò la mattanza di ebrei, le uccisioni di civili, gli stupri, i rapimenti e le torture, a New York in molte università gli studenti denunciarono subito le responsabilità… di Israele. Prima ancora che Netanyahu e l’esercito israeliano avessero reagito, i colpevoli per la gioventù studentesca militante erano loro. Quando poi la reazione israeliana arrivò, cominciarono le occupazioni dei campus, sempre a senso unico: con partecipazione di imam che venivano a condurre le preghiere degli studenti e studentesse arabi. L’escalation di antisemitismo, le intimidazioni e le violenze contro gli studenti ebrei, venivano tollerati dalle autorità accademiche.
Poi è arrivata la controreazione: la vittoria di Trump nel novembre 2024, il giro di vite della sua Amministrazione sugli atenei come Columbia. Nel frattempo, a Gaza si moltiplicavano le violenze delle forze armate israeliane e precipitava la tragedia umanitaria del popolo palestinese. Tutti questi eventi hanno formato e forgiato una «Generazione Gaza» che ha trovato in Madami il leader ideale: musulmano, filo-palestinese, ha abbracciato lo slogan «Intifada globale», ha chiesto sanzioni e boicottaggi contro Israele. Sospetti e accuse sul suo antisemitismo non sembrano averlo danneggiato presso i suoi giovani fan, anzi sono credenziali e titoli di merito.
3. Trump
Trump. Una parte dell’elettorato di Mamdani – in questo caso non solo i giovani – pensa che l’America stia scivolando verso un regime autoritario. Se ci sia una reale crisi di questa democrazia è opinabile (tutti gli anticorpi di questa Repubblica stanno funzionando come devono: Congresso, magistratura, libertà di stampa e di assemblea, federalismo). Se non della democrazia, di sicuro è esplosa una crisi del partito democratico, che ancora non ha digerito il lascito del quadriennio Biden-Harris, e si dibatte internamente alla ricerca di un’identità. Strategia e leadership futura del partito democratico dipendono molto dalla risposta alla domanda: qual è il modo giusto per contrastare Trump? Mamdani, e la sua madrina politica Alexandria Ocasio Cortez, usano una retorica di tipo resistenziale. I moderati e centristi del loro partito pensano che la retorica antifascista sia la strada sbagliata. In altri Stati i democratici presentano candidati diversissimi da Mamdani. Basta guardare alle due elezioni di governatori più vicine, che si tengono sempre oggi. In Virginia la candidate dem è Abigail Spanberger, in New Jersey è Mikie Sherrill. Due giovani donne, tutt’e due con credenziali ultra-patriottiche. Spanberger prima di lanciarsi in politica fu una funzionaria della Cia. Sherrill era stata una pilota militare di elicotteri nella U.S. Navy. Due profili impeccabili per inseguire l’elettorato operaio che è passato ai repubblicani. Due personaggi agli antipodi rispetto a Mamdani.
Lo stesso Trump ieri è intervenuto di persona in questa dialettica interna all’opposizione. Dando il suo endorsement all’unico candidato in grado di impensierire Mamdani, il democratico Andrew Cuomo, il presidente si è immischiato a modo suo nelle lotte intestine della sinistra. Cuomo oggi sulle schede appare come un candidato indipendente, solo perché ha perso le primarie del suo partito che hanno incoronato Mamdani. Ma tutti sanno che Cuomo non è affatto indipendente, appartiene a una dinastia storica del partito democratico. Suo padre Mario fu, come lui, governatore dello Stato di New York e accarezzò una candidatura presidenziale. Durante la pandemia Andrew Cuomo come governatore era idolatrato dalla base democratica, era l’anti-Trump (anche grazie all’aiuto di suo fratello Chris, allora potente anchorman della Cnn). Oggi Cuomo è l’esponente che cerca di raccogliere i voti dell’anima moderata e centrista del suo partito.
I due scenari allettanti per Trump
Che effetto può avere l’endorsement dell’ultima ora di Trump in suo favore, davvero inusuale (esiste anche un candidato repubblicano, ancorché sprovvisto di credibilità)? Se i sondaggi sono credibili, non basta neppure dirottare verso Cuomo il voto repubblicano della città (assai minoritario) per far perdere Mandami. Comunque, i due scenari sono entrambe allettanti per Trump.
Se per caso dovesse verificarsi il colpo di scena, cioè la vittoria a sorpresa di Cuomo, il nuovo sindaco democratico sarebbe debitore di un presidente repubblicano, che peraltro la sua base osteggia. Trump sarebbe stato il King Maker dei democratici newyorchesi, l’arbitro finale delle loro liti interne.
Se invece Cuomo perde, come dicono i sondaggi, Trump potrà comunque vantarsi di aver aiutato i moderati, poi comincerà a sfruttare tutti gli errori dell’amministrazione Mandani, sperando che il malgoverno di New York peggiori, trasformando la Grande Mela in una «San Francisco al cubo», una vetrina degli eccessi della sinistra radicale.
Ha anche detto che negherà fondi federali a un sindaco «comunista». Ne vedremo delle belle.
4 novembre 2025, 17:12 – modifica il 4 novembre 2025 | 17:21
© RIPRODUZIONE RISERVATA
4 novembre 2025, 17:12 – modifica il 4 novembre 2025 | 17:21
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