
Le aree marine protette, soprattutto quelle in cui la pesca industriale è vietata del tutto, funzionano. E anzi hanno un effetto dissuasivo anche sulla pesca illegale. A dirlo sono due studi pubblicati sulla rivista Science e condotti da un team di ricercatori statunitensi, che si è avvalso di una tecnologia satellitare in grado di tracciare perfino i pescherecci che disattivano i sistemi di localizzazione. Una tecnica di tracciamento così avanzata che potrebbe rivoluzionare la sorveglianza marina (e abbassarne i costi).
I numeri della pesca industriale
La flotta della pesca industriale globale conta quasi mezzo milione di navi in tutto il mondo e cattura circa 100 milioni di tonnellate di prodotti ittici all’anno. Si tratta di un aumento di cinque volte rispetto al 1950, anche se negli ultimi 30 anni i volumi si sono stabilizzati. Attualmente, secondo la Fao, più di un terzo delle specie ittiche commerciali è pescato oltre il limite sostenibile. Per l’organizzazione non profit Marine Stewardship Council, la pesca è sostenibile «quando lascia abbastanza pesci nell’acqua affinché la popolazione possa riprodursi, minimizzando il proprio impatto su habitat ed ecosistemi».
Cosa sono le aree marine protette
Le aree marine protette sono ambienti che possono comprendere acque, fondali e tratti di costa con particolari caratteristiche naturali e che ospitano al loro interno habitat dove la fauna marina si può nutrire e riprodurre. Secondo le stime ufficiali, queste realtà oggi proteggono l’8 per cento degli oceani, ma non tutte le aree marine protette seguono gli stessi standard.
Come puntualizza su The Conversation Jennifer Raynor, una delle ricercatrici che ha preso parte allo studio, solo il 3 per cento di queste aree prevede reali divieti alla pesca industriale, mentre in molte altre è permessa perfino la pesca a strascico, una delle tecniche più distruttive perché riduce in modo significativo la biodiversità delle comunità di organismi che vivono a contatto con i fondali marini, come ha documentato in un recente studio l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale.
Le aree marine protette – e in particolare quelle che prevedono divieti stringenti – giocano un ruolo fondamentale nel ripristinare gli stock ittici e gli habitat marini. «In studi precedenti», scrive Raynor, «ho dimostrato che possono persino aiutare le zone di pesca vicine grazie al fenomeno dello “spillover”, con pesci che si spostano nelle aree limitrofe». È per questo che, dopo anni di negoziati, nel 2023 gli stati membri dell’Onu hanno trovato un accordo internazionale per rendere aree protette il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto, dove cioè tutti i Paesi hanno il diritto di pescare e navigare. Un impegno ribadito anche durante la terza edizione della Conferenza, che si è tenuta lo scorso giugno a Nizza, in Francia.
I sistemi di tracciamento
Nella realtà, per garantire che le aree marine protette svolgano la loro funzione servono controlli. E qui sta uno dei maggiori punti deboli: oggi molte navi hanno l’obbligo di usare il sistema di identificazione automatica (Ais), un sistema di tracciamento che trasmette la posizione delle imbarcazioni quasi in tempo reale per evitare le collisioni. L’Ais, però, ha diversi limiti: nelle aree particolarmente trafficate ha una scarsa copertura e, in altri casi, le navi possono spegnerlo o falsarne i dati.
Nuove tecnologie
Tra le nuove tecnologie che permettono di superare questi limiti c’è il Radar ad Apertura Sintetica (Sar), uno strumento che di solito viene montato a bordo dei satelliti messi in orbita nelle missioni spaziali. Questo sistema, che funziona inviando impulsi radar sulla superficie dell’oceano e analizzando quelli che “rimbalzano” indietro, è in grado di rilevare le navi anche anche quando non trasmettono segnali Ais.
La soluzione permette di rendere visibili attività prima invisibili, come dimostra uno studio citato da Raynor: «In uno studio condotto in aree costiere, abbiamo scoperto che nel 75 per cento dei casi le navi da pesca rilevate dal radar non erano state tracciate usando l’Ais».
I risultati degli studi
Combinando i dati Ais con le immagini radar satellitari per tracciare la pesca industriale nelle aree marine protette, gli scienziati hanno svolto una ricerca i cui risultati sono stati pubblicati a fine luglio in due diversi studi sulla rivista Science. L’analisi ha preso in considerazione 1.400 aree protette, per un totale di circa 7,9 milioni di chilometri quadrati.
I risultati sono stati sorprendenti: nella maggior parte delle aree protette sono state rilevate poche o nessuna traccia di pesca industriale, con una media di cinque pescherecci ogni 100mila chilometri quadrati (contro i 42 individuati nelle aree costiere non protette). Inoltre, nel 96 per cento dei casi, l’attività di pesca sospettata di essere illegale durava per meno di un giorno all’anno. Nel secondo studio, i ricercatori hanno analizzato un insieme ancora più ampio di aree protette, includendo anche quelle senza divieti totali: in questo caso, l’attività di pesca rilevata è risultata otto volte più intensa. Una dimostrazione del fatto che le aree protette che funzionano davvero sono quelle con i divieti più stringenti.
I progressi tecnologici nel tracciamento delle navi, anche grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale, possono rivoluzionare la sorveglianza nelle aree protette: le autorità, infatti, non sono più costrette a ricorrere a pattugliamenti fisici (con tutti i costi che comportano), ma possono monitorare i luoghi da remoto – anche sfruttando strumenti pubblici come la mappa dell’ong Global Fishing Watch – e fare interventi mirati.
7 agosto 2025
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