L’arte di tradurre Murakami

di ANNACHIARA SACCHI Antonietta Pastore, voce italiana dell’autore: ha anticipato il nostro presente virtuale. Lo scrittore giapponese ha vinto la Classifica di Qualità 2024 con «La città e le sue mura incerte». La sua traduttrice è seconda nella speciale graduatoria delle versioni in italiano

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I loro rapporti sono cordiali, «buongiorno Murakami san», «buongiorno Pastore san». Entrambi hanno un’indole schiva, l’ultima volta che lui è stato in Italia è riuscito anche a dribblare i fan che hanno fotografato un altro volto, un altro giapponese. Si sentono raramente — via mail — e solo per questioni di lavoro. È difficile, però, se non impossibile, trovare in Italia una persona che conosca la poetica, la lingua, lo stile di Murakami Haruki meglio della sua traduttrice, Antonietta Pastore. E ora che lo scrittore nato a Kyoto nel 1949 ha vinto la Classifica di Qualità de «la Lettura» 2024 con La città e le sue mura incerte, e che l’autrice nata a Torino nel 1946 è arrivata seconda nella graduatoria dei traduttori — sempre de «la Lettura» — proprio per quel titolo, è arrivato il momento di festeggiare e raccontare una lunga storia cominciata lo scorso millennio: «Dopo 25 anni e 25 libri tradotti si crea una certa simbiosi. La sua grandezza? Ha colto come nessuno, e prima di tutti, il desiderio, la spinta dell’umanità contemporanea verso altri mondi, altre dimensioni. Ha intuito la potenza di internet quando internet ancora non c’era».

La prima traduzione, una folgorazione. Era il 1999, anno in cui Baldini &Castoldi affidò a Pastore la versione italiana di L’uccello che girava le viti del mondo, romanzo del 1994-1995 (uscì in tre tranche) con tutto il Murakami a cui ci siamo abituati (e affezionati): pozzi, donne che scompaiono, il dramma della guerra, relazioni in cui non tutto si dice, la sensazione di trovarsi in un altrove fantastico e a volte spaventoso. Dal suo studio lungo il Po la traduttrice non ha più lasciato quel riservato scrittore che ha plasmato cieli a due lune abitati da sorci, gatti parlanti e uomini incolori. Il suo stile, nota, è fatto di parole semplici, a volte ripetute, che lo rendono subito riconoscibile, quasi un parlato: «No, non è cambiato molto, e questa è stata la sua fortuna».

È mutato, invece, il modo in cui Murakami affronta le sue ossessioni: «Nelle opere meno recenti le alternava: da una parte il rimpianto del passato e la nostalgia per le amicizie e gli amori perduti — pensiamo a titoli come A Sud del confine, a ovest del sole, o all’Incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio —, dall’altra la fuga nel fantastico, come in Nel segno della Pecora, Kafka sulla spiaggia, 1Q84. Tendeva a tenere separate le due dimensioni. Ma con il passare degli anni, lo vediamo in L’assassinio del Commendatore (Einaudi, 2017) e in La città e le sue mura incerte (sempre Einaudi, che pubblica tutti i libri dell’autore) quegli elementi cardine tendono a fondersi». Questione di età, anche: «È evidente — continua Pastore — che anche per lui, con il passare degli anni, la morte diventa un tema più concreto, si avvicina: nelle pagine del nuovo romanzo c’è un fantastico che poi, tutto sommato, non lo è così tanto. Murakami comincia il libro nel solito modo: scende nel seminterrato di una biblioteca e non trova niente di magico, arriva in una città in cui non c’è memoria ma non c’è nemmeno speranza, nessuno muore se non gli unicorni che assorbono il male del mondo: forse allora la città di cui ci parla non è altro che un limbo tra la vita e la morte?».

Ma quindi, per aggiungere una domanda alla traduttrice che è anche scrittrice (tra i suoi titoli Mia amata Yuriko, Einaudi, 2016), non è che Murakami si è incupito? «Direi di no. Lo definirei preparato all’idea della morte, anziché cupo. Preparato ma abbastanza sereno, è come se riversasse le sue angosce nella città e facendo così le esorcizzasse».

Ci è voluto un anno per tradurre La città e le sue mura incerte. Nove mesi di lavoro sul testo e due revisioni. «Mi concentro meglio di pomeriggio, ecco forse questa è la cosa che più mi separa da Murakami, che sento molto vicino a me, ma che è un gran mattiniero. Sì, l’ho conosciuto di persona quando ad Alba ha ricevuto nel 2019 il Premio Lattes Grinzane. Garbato, quasi timido». Il suo libro più difficile da tradurre? «Ritratti in jazz (con Wada Makoto, Einaudi, 2013), per la traslitterazione dei nomi dei musicisti americani in giapponese, che mi ha fatto impazzire». Echi di altri scrittori nella prosa murakamiana? «Forse, nel linguaggio, c’è qualcosa di Natsume Soseki, autore che lui ama molto. E anche io». Usciremo mai dall’impaccio di non riconoscere nomi e cognomi giapponesi visto che alcuni editori usano la forma occidentale (prima il nome) e altri seguono la forma giapponese, con il cognome per primo? «Non credo, del resto per i giapponesi è naturale chiamarsi per cognome mentre a noi risulta strano. Murakami fa eccezione perché ha vissuto a lungo in Occidente, a volte si lascia perfino scappare un Antonietta san… Certo, con tutti questi bisticci linguistici qualche confusione qui la si fa: per esempio Oe è il cognome, non Kenzaburo».

Traduttrice di grandi autori, non solo di Murakami Haruki, amante di figure come Natsuo Kirino, Dazai Osamu, Murakami Ryu, Pastore è soddisfatta del suo secondo posto nella classifica dei traduttori de «la Lettura», ma soprattutto della vittoria di Lia Iovenitti per la traduzione di Non dico addio (Adelphi) della premio Nobel coreana Han Kang: «Anche io l’ho votata per la sua bella traduzione. Soprattutto mi piace questa apertura verso Oriente: per anni abbiamo visto arrivare da noi solo libri provenienti dal Giappone, mentre ora la cultura coreana si sta facendo strada e poi magari chissà, toccherà al Vietnam, alla Cambogia…».

A proposito di Nobel, tema spinoso quando si tratta di Murakami, sempre annunciato e mai assegnato: «Certo che lo merita, anche se non ne ha bisogno e non gli interessa, non ha grande stima per la critica letteraria, non ha mai ricevuto neanche il premio Akutagawa (lo Strega nipponico, ndr). Ma la sua grandezza è sotto gli occhi di tutti: con le sue storie Murakami ha colto il desiderio di evasione dell’essere umano contemporaneo aprendo dimensioni virtuali e misteriose in un’epoca in cui di virtuale e digitale non c’era niente. È come se avesse presentito il cambiamento in arrivo. La sua percezione poetica è stata straordinaria».

La traduttrice

Antonietta Pastore (Torino, 1946; foto sotto di Massimo Battista) è scrittrice e traduttrice. Il primo titolo di Murakami che ha tradotto è L’uccello che girava le viti del mondo (Baldini &Castoldi, 1999, poi Einaudi): sue sono le versioni in italiano di 25 titoli dell’autore tra cui il più recente, La città e le sue mura incerte (Einaudi) Ha tradotto inoltre autori come Natsume Soseki, Dazai Osamu, Kobo Abe. Pastore è anche autrice: tra i suoi libri il saggio Nel Giappone delle donne del 2004; la raccolta di racconti Leggero il passo sul tatami del 2010; il romanzo Mia amata Yuriko del 2016 (tutti usciti da Einaudi) Pastore ha studiato a Ginevra (dove è stata allieva dello psicologo Jean Piaget) e alla Sorbona, ha vissuto in Giappone tra il 1977 e il 1993, dove ha insegnato nelle università di Kyoto e Osaka

25 dicembre 2024 (modifica il 25 dicembre 2024 | 12:03)

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