
Due cose ho ricevuto in eredità da mio padre. La prima è la convinzione che bisogna agire, resistere all’oppressione, come ha fatto lui nelle brigate internazionali in Spagna e poi contro i nazisti ad Auschwitz. La seconda è la speranza. Qualsiasi cosa accada, verrà un giorno in cui il mondo sarà migliore». Roger Fajnzylberg, 77 anni, ex sindaco di sinistra di Sèvres, alle porte di Parigi, pubblica ora anche in Italia i diari del padre Alter (1911-1987), militante comunista ebreo polacco che andò a combattere in Spagna e poi venne deportato con il primo convoglio partito dalla Francia verso i Lager. Cosa ho visto ad Auschwitz è il resoconto terribile della crudeltà nazista, tenuto nascosto e quasi dimenticato per anni in una scatola da scarpe.
Signor Fajnzylberg, la pubblicazione dei diari è una storia nella storia. Perché sono rimasti ignorati così a lungo?
«A Parigi con i miei genitori vivevamo in un piccolo appartamento a Montmartre, due stanze, e sapevo che c’era questa scatola che conteneva i suoi diari. Ma non osavo aprirla, forse per paura di saperne di più su quel che aveva patito durante la guerra».
Non faceva parte dei racconti di famiglia?
«I miei genitori cercavano di proteggermi, anche se sapevo quel che era successo. Mia madre aveva il numero di prigioniera tatuato sul braccio, non è che si potesse ignorarlo. Nelle riunioni di famiglia parlavano in yiddish, che riuscivo a capire, ma quando i racconti si facevano più duri passavano al polacco, che ignoravo. Era un modo per preservarmi dall’orrore».
Quando ha deciso di aprire la scatola?
«È stato un processo molto lungo, cominciato dopo la morte di mio padre nel 1987. I miei figli hanno cominciato a volere sapere di più, a farmi domande, e nella società si parlava di più di negazionismo e della necessità di testimoniare. Ma c’è stato un evento che alla fine mi ha convinto».
Quale?
«Sono stato a lungo il direttore di una associazione che dopo la guerra ha accolto centinaia di bambini orfani del campo di Buchenwald, tra i quali Elie Wiesel. Nel 2005, vent’anni fa, le autorità tedesche hanno invitato i sopravvissuti a commemorare la liberazione. C’era anche lo scrittore spagnolo Jorge Semprún, che fece un discorso molto poetico sul fatto che presto non ci sarebbe stato più nessuno capace di raccontare quel che era successo. Allora nella sala si alzò in piedi uno dei deportati, che gridò: “Noi ci saremo sempre”. Per me fu un momento commovente. Tornato a Parigi, mi decisi ad aprire la scatola. Trovai quattro quaderni scritti in polacco, e a qual punto andai avanti. Li ho portati al memoriale della Shoah, e sono entrato in contatto con lo storico Albin Perrin, che li ha tradotti e curati».
Quel che colpisce di questi testi è anche la profondità dello sguardo di suo padre. In un passaggio dice per esempio che i nazisti hanno perso la guerra da un punto di vista militare, ma non quella sul fronte interno, perché sono riusciti nell’intento di sterminare milioni di persone.
«I nazisti hanno perso la guerra, ma a che prezzo? Quanti innocenti sono caduti? È una riflessione sconvolgente. E pensare che mio padre nella sua Polonia natale non aveva studiato. Del resto se ha scritto i diari non era certo per fare letteratura ma proprio per testimoniare, per lasciare una traccia, quando i nazisti erano invece ossessionati dal cancellarle».
Un altro aspetto sconvolgente dei diari è la descrizione del sadismo diffuso. Zygmunt Bauman in «Modernità e Olocausto» ha spiegato bene come la Shoah sia stata il frutto di una divisione del lavoro di tipo industriale, che ha assicurato efficienza e anche una sorta di scarico di responsabilità, di relativa lontananza dal risultato finale. Ma poi, nei campi, leggendo i diari di suo padre, si vede come la crudeltà fosse evidente, spaventosa e capillare. All’opera non c’erano solo pochi psicopatici.
«Sì, e questo fa pensare alla natura umana, una questione che mi tormenta da tempo. La crudeltà era evidente, è vero, ma anche continuamente negata. I forni crematori erano chiamati “la piccola casa bianca”, ai deportati che stavano per morire asfissiati si diceva di affrettarsi altrimenti la zuppa si sarebbe raffreddata… C’era la volontà di nascondere, negare tutto, e di fare sparire ogni traccia. Mio padre fu costretto a far parte dei Sonderkommando, le “unità speciali” di deportati ebrei chiamati a eseguire gli ordini nei nazisti. Nelle ultime settimane vennero sterminati con particolare cura proprio perché non potessero raccontare quanto avevano visto».
Si è dato una spiegazione su come suo padre sia riuscito a salvarsi?
«Era un uomo molto forte e credo che la banale forza fisica abbia contato. Poi, forse, anche la forza morale lo ha aiutato a tenere duro. Per avere voglia di sopravvivere, per provarci almeno, bisognava avere una fede incrollabile in qualcosa. In Dio o, come nel caso di mio padre, nella convinzione che alla fine la Germania avrebbe perso, e che quel giorno bisognava essere vivi per raccontare. Credo che sia stato questo ad averlo trattenuto dal cercare una morte rapida, magari buttandosi contro una guardia».
Come ha vissuto lei l’esperienza di crescere con genitori ex deportati? Si è mai sentito colpito dalla sindrome del sopravvissuto?
«Di sicuro porto in me qualche conseguenza di quell’esperienza atroce. Ma mi fa piacere rivendicare il fatto di avere avuto un’infanzia felice. Nonostante tutto i miei genitori sono riusciti a darmi molto amore e a preservarmi dal quel male. È una cosa importante da dire, anche questo è un modo per non darla vinta agli oppressori. La storia è un eterno ripetersi, sotto forme diverse. Ma io voglio restare dalla parte di quelli che hanno una lettura ottimista dell’avvenire del mondo».
20 aprile 2025 (modifica il 20 aprile 2025 | 16:44)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
20 aprile 2025 (modifica il 20 aprile 2025 | 16:44)
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