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L’altro protezionismo di Trump? È il calo del dollaro: ecco come funziona e fin dove può arrivare

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Fin dove può scendere il dollaro? L’indebolimento della valuta americana prosegue da tempo. Il tasso di cambio viene sospinto al ribasso volutamente da Donald Trump, per esempio con gli attacchi alla Federal Reserve. E’ benefico per le imprese americane, che guadagnano competitività perché le loro esportazioni all’estero diventano meno care (e i profitti rimpatriati dall’estero valgono di più). Non a caso i continui scivoloni del dollaro si accompagnano con altrettanti record al rialzo delle Borse Usa. Per Trump questa svalutazione competitiva è un parziale surrogato dei dazi. L’effetto finale è identico. Per migliorare la competitività dei miei prodotti io posso tassare i prodotti stranieri quando arrivano alla dogana; oppure posso abbassare i miei prezzi sui mercati altrui (e rendere più care le merci estere) grazie a un indebolimento della mia valuta. Finché prosegue questo ribasso del dollaro, può contribuire anche a spiegare una maggiore flessibilità o arrendevolezza nei negoziati sui dazi: Trump ha meno bisogno del protezionismo tariffario, se nel frattempo sta ottenendo risultati simili (almeno in parte) grazie alla svalutazione.

Non è una novità. Le guerre valutarie sono sempre state una delle possibili forme delle guerre commerciali. Il presidente repubblicano Richard Nixon ne fece uso in modo brutale nel 1971 quando dichiarò l’inconvertibilità del dollaro (lo sganciamento dall’oro e dai cambi fissi), distruggendo così un ordine monetario internazionale che Franklin Roosevelt aveva inaugurato nel 1944: nell’instabilità dei cambi che ne seguì, Nixon incassò un miglioramento della competitività verso Germania e Giappone (a cui aggiunse pure dei dazi). Un altro repubblicano, Ronald Reagan, costrinse gli alleati ad accettare due accordi fra banche centrali (Hotel Plaza di New York settembre 1985, Louvre Parigi febbraio 1987) per svalutare il dollaro e rivalutare yen giapponese e marco tedesco.

Ma non c’è bisogno di risalire così indietro nel tempo, per trovare delle oscillazioni poderose nei rapporti di cambio. Subito dopo la nascita dell’euro – quella “virtuale” del 1999 e quella “fisica” nel 2002 – la nuova moneta unica ebbe un periodo di estrema debolezza, scivolando per lunghi periodi sotto la parità. Cioè: un euro valeva meno di un dollaro. La valuta americana era fortissima, all’inizio del millennio. Il periodo recente di massima debolezza del dollaro invece si situa – comprensibilmente – durante la grande crisi finanziaria e bancaria del 2008, originata dalle insolvenze dei titoli derivati sui mutui subprime. Per Wall Street fu un crac di proporzioni storiche e anche la moneta americana ne risentì pesantemente. Sui grafici di quel periodo trovate una punta di 1,58 (dollari per euro) alla data del primo luglio 2008. Quindi in pochi anni si è passati da una fase in cui un dollaro “comprava” più di un euro; ad un’altra fase in cui un euro comprava oltre un dollaro e mezzo: un’oscillazione di oltre il 50% nella parità di cambio! Eppure nella percezione generale queste alterazioni dirompenti nei rapporti di valore tra i due sistemi economici Usa-UE fanno meno scalpore dei dazi.

Al confronto, ciò che è accaduto dall’inizio di quest’anno non ha sconvolto in modo così brutale i rapporti fra le due monete. Il 12 gennaio 2025 un euro valeva 1,02 dollari, eravamo cioè quasi alla parità assoluta fra le due monete. Venerdì 27 giugno un euro valeva 1,17 dollari. C’è stata quindi una perdita di valore per la moneta americana di circa il 15% in un semestre; e un guadagno di competitività altrettanto importante per le esportazioni di prodotti “made in Usa”. Come si vede, senza arrivare agli estremi del periodo 2000-2008 è comunque già accaduto in sei mesi l’equivalente di una robusta barriera di dazi. E alla luce dell’esperienza storica la parità di cambio potrebbe continuare a cambiare, spingendosi più avanti nella direzione auspicata da Trump. (La mia NON è una previsione, sia chiaro; è solo la constatazione di una possibilità, alla luce dei precedenti storici). Oltre a favorire gli esportatori americani in Europa, e a danneggiare gli esportatori europei in America, questo deprezzamento del dollaro è anche un incentivo a investire negli Stati Uniti: costa meno che in passato.

28 giugno 2025

28 giugno 2025

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