Armiamoci e partite (correnti). L’interrogativo, dopo il vertice Nato dell’Aia e l’ultimo Consiglio europeo di Bruxelles, è brutalmente questo: fino a che punto l’impegno nel riarmo «disarmerà» gli Stati Uniti sul fronte dei dazi?
Il periodo di sospensione, per il grosso delle misure tariffarie, tanto care a Donald Trump, scadrà il 9 luglio, ma la Casa Bianca appare disponibile a un rinvio, specie dopo aver raggiunto venerdì scorso un’intesa con la Cina. Se le trattative tra il commissario europeo al Commercio, Maroš Šefcovic, e il suo omologo statunitense, Howard Lutnick, si concludessero su un livello del 10%, dovremmo considerare il compromesso un successo. Piacerebbe a tedeschi e italiani, che esportano di più, meno alla Francia. Al di là del tema delle simmetrie (come trattiamo le nostre importazioni dagli Usa e come ci regoliamo con i servizi?), se paragoniamo quello che accade oggi con i roboanti proclami d’inizio aprile, potremmo persino parlare di una sorta di «liberalizzazione» psicologica. Eppure, pensandoci bene, la differenza rispetto al periodo pre-Trump è enorme. Il dazio medio imposto dagli Stati Uniti sulle importazioni è comunque aumentato di dieci volte.
L’esuberanza irrazionale
Il grado di digeribilità delle cattive notizie economiche è assai elevato. Ed è questa l’anomalia di un periodo eccezionale che mette a dura prova la globalizzazione (che però resiste più del previsto) e viene vissuto dai mercati finanziari (meno da quelli valutari) con incredibile noncuranza. Le Borse, soprattutto americane (e Trump di conseguenza ora gongola), sono intorno ai massimi. Vivono una sorta di «esuberanza irrazionale».
La citazione non porta bene, perché quella definizione era di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve nel periodo precedente alla crisi dei mutui subprime del 2008, scoppiata al punto massimo della globalizzazione. Una lezione che forse abbiamo dimenticato troppo in fretta.
Altri pericoli
I mercati finanziari sembrano tetragoni alla geopolitica, ma forse sottostimano pericoli di altra natura come il peso delle criptovalute e l’allargarsi endemico delle contrattazioni non regolate. Paolo Savona, nella sua ultima allarmata relazione come presidente Consob, ha paragonato il rischio bolla delle criptovalute all’eccesso di prodotti derivati causa della crisi finanziaria di diciassette anni fa. Ci troviamo, in estrema sintesi, alle soglie di un mondo oscuro dei cui confini non abbiamo esatta cognizione, ma soprattutto non ce l’hanno le autorità di vigilanza, indebolite un po’ dappertutto (come avviene per la Fed quotidianamente sferzata dalla Casa Bianca per non parlare della Sec, l’equivalente americano della Consob). Ed è un curioso paradosso che ciò avvenga nel momento in cui la tecnologia consente di vedere e controllare tutto a distanza e l’intelligenza artificiale sembra destinata ad essere applicata a ogni istante delle nostre vite con buona pace del diritto alla privacy.
Tutte le analisi concordano sul fatto che i dazi finiranno per colpire di più l’economia americana di quelle dei partner commerciali. Mario Baldassarri, sul Sole 24 Ore, sostiene che Trump avrebbe avuto più vantaggi nel non fare niente ed esercitare, invece, tutto il proprio peso politico nel riaffermare la centralità del dollaro nell’architettura finanziaria mondiale, premendo sui Paesi amici (come è accaduto per il Regno Unito) affinché sottoscrivano titoli di Stato americani. Perché il vero problema alla fine è la sostenibilità del debito a stelle strisce.
Baldassarri ha presentato nei giorni scorsi ad Ancona il ventesimo Rapporto del suo Centro studi di economia reale. Contiene una simulazione, realizzata con Oxford Economics, sull’effetto dei dazi americani. L’economista marchigiano è convinto che il deficit commerciale statunitense sia dovuto più a un eccesso di domanda interna che a un problema di competitività.
L’effetto boomerang
Due gli scenari. Il primo, in assenza di rincari tariffari, vede un Prodotto interno lordo mondiale crescere del 3% sia nel 2025 e sia nel 2026. Il secondo è costruito ancora nell’ipotesi peggiore di dazi tra Cina e Usa al 140%, al 25% tra Usa e Canada e Messico e al 20% con l’Unione europea, oltre al 10% con il Regno Unito. Sono valori, dopo il compromesso cinese e l’ipotesi di una tregua tra Usa e Ue al 10%, in parte superati ma che ci consentono di apprezzare il fenomeno e le sue conseguenze. Lo scenario peggiore vede contrarsi la crescita mondiale di un punto percentuale quest’anno e di due punti il prossimo. Andrebbero perduti, nel biennio, 4 mila miliardi di dollari. Come se scomparissero Italia e Spagna. Per gli Stati Uniti si tratterebbe di un tributo, pagato alla follia dei tributi, di 1.800 miliardi. A livello mondiale salterebbero 4,5 milioni di posti di lavoro nei Paesi industrializzati e 10 milioni nelle economie emergenti.
L’Italia ne perderebbe 100 mila in un’Europa che, di occupati, ne avrebbe un milione in meno. Il costo complessivo per la nostra economia, nello scenario peggiore dei dazi, è stimato intorno a 1,7 punti percentuali di Pil, ovvero 44 miliardi. Come si può vedere, la soluzione al 10 per cento non sarebbe assolutamente traumatica. La minaccia di barriere tariffarie, in gran parte solo annunciate, non ha aiutato il dollaro. Lo ha ulteriormente indebolito. Dall’inizio dell’anno la svalutazione è ormai vicina al 20%. Ed equivale a un dazio universale. Applicato a tutti.
Il fronte orientale
Lo studio di Economia reale segnala anche, in prospettiva, una tendenza alla svalutazione dello yuan, la moneta cinese, rispetto all’euro. Il segno che l’Europa deve guardarsi anche dal suo fronte orientale e dalla possibilità che una parte delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti venga dirottata nel Vecchio Continente. Una minaccia forse più concreta dei dazi minacciati da Trump. Le nostre esportazioni, nel dato di aprile, seppure più deboli (-2,8%), sono tali da mantenere un saldo positivo della bilancia commerciale. Il flusso turistico non ne risente, anzi cresce (10-12 miliardi di spesa mensile, equivalgono a delle esportazioni). Abbiamo assorbito il 10% sull’acciaio.
Le imprese italiane che esportano sanno adattarsi, diversificare, essere pronte e flessibili. La reazione, positiva, fa ben sperare, sulla capacità di assorbire colpi competitivi. Da Ovest e da Est. Forse il peggio è già passato.
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