Home / Esteri / La vera forza della Cina, vista da Washington

La vera forza della Cina, vista da Washington

//?#

È rimasta solo la Cina, sul ring, a combattere la guerra dei dazi con l’America. Tutte le altre grandi economie hanno patteggiato, hanno concluso accordi, trovando compromessi più o meno convenienti. I due partner più vicini, Canada e Messico; le quattro maggiori aree economiche amiche ed alleate, cioè Unione Europea, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito: con questo elenco degli accordi raggiunti si può dire che gran parte del commercio tra Stati Uniti e resto del mondo è coperto da intese di massima che sembrano avere contenuto i danni (per tutti: dagli esportatori esteri al consumatore americano). Restano fuori certi paesi emergenti che hanno subito trattamenti peggiori. Resta fuori, soprattutto, l’altra superpotenza globale.

Il negoziato fra Washington e Pechino si protrae con alti e bassi, improvvise recrudescenze di tensioni e minacce, tanta tattica e tanto fumo negli occhi. Ciascuno dei due sta ancora sondando i danni che può infliggere all’altro e sta saggiando la soglia di sopportazione dell’altro.

Comunque vada a finire il negoziato si capisce che ambedue sono avviati verso una maggiore indipendenza reciproca. Nel lungo termine questa sembra la vera direzione di marcia. Se Trump nega alla Cina certi microchip iper-sofisticati, Xi si rafforza nella convinzione che dovrà riuscire a fabbricarseli in casa. Se Xi continua ad agitare l’arma delle terre rare, Trump accelera il passo per estrarle dal proprio sottosuolo o stringere nuove alleanze con partner che ne hanno (in Africa, Sudamerica, Australia). La deriva dei continenti procede, lentamente e tra mille difficoltà, ma quella è la direzione: una retromarcia dalla globalizzazione spinta dell’ultimo trentennio. Intanto il surplus commerciale cinese verso gli Usa crolla; e Pechino si rassegna a dirottare altrove la propria pressione commerciale, con effetti distruttivi sulle prede.

Un interrogativo rimbalza spesso a Washington. Quanto è forte, davvero, questa Cina? È una “tigre di carta” (metafora maoista…) che vuole spaventare ma nasconde le proprie debolezze e contraddizioni interne? Il fatto che la sua crescita sia rallentata vistosamente, è fisiologico o invece preannuncia l’inizio della fine di un miracolo asiatico, come accadde al Giappone attorno al 1989? Le valutazioni oggettive sono difficili, perché la Cina si nasconde ai nostri sguardi: checché si dica degli sforzi ingenui o velleitari di Trump di influenzare i propri centri di statistiche, l’economia americana è una casa di vetro, trasparente ed esposta agli sguardi di tutti; quella cinese è un enigma nascosto da spesse coltri di segretezza, falsità, bugie e propaganda.

Voglio soffermarmi su un’analisi di fonte americana molto autorevole (uno dei due autori è di origine etnica cinese: una forza Usa è anche quella di saper leggere il mondo con gli occhi di esperti multietnici cooptati nella propria classe dirigente). Mi sembra degna di attenzione sia per la profondità e competenza, sia perché appartiene al filone positivo, ottimista, che considera reale la forza della Cina e invita a prenderla molto sul serio.

È il saggio di Dan Wang e Arthur Kroeber, “The Real China Model. Beijing’s Enduring Formula for Wealth and Power”, uscito nel numero di ottobre della rivista Foreign Affairs, la più autorevole pubblicazione di geopolitica, edita dal Council on Foreign Relations. È uno studio voluminoso. Ne riassumo gli aspetti essenziali.
Nel 2015, solo tre anni dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping, la Cina lanciò il programma “Made in China 2025”, un piano industriale di lungo periodo destinato a ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente e a trasformare il Paese in una potenza tecnologica globale. Il progetto identificava dieci settori strategici — tra cui energia, semiconduttori, automazione industriale, robotica e materiali avanzati — e prevedeva enormi investimenti pubblici: ogni anno l’equivalente dell’1-2% del PIL in sussidi, crediti agevolati e agevolazioni fiscali. L’obiettivo era far nascere campioni nazionali capaci di dominare i mercati mondiali.

A distanza di dieci anni, il bilancio è sorprendente. La Cina domina il mondo nei veicoli elettrici, nelle energie pulite, nei droni e nell’automazione industriale; controlla la catena globale del solare e la raffinazione delle terre rare; esporta più del 40% delle auto elettriche mondiali e produce tre quarti di tutte quelle vendute. Aziende come BYD, CATL, Huawei, DJI e Xiaomi sono diventate marchi globali. Tuttavia, molti osservatori occidentali continuano a sottolineare gli aspetti patologici del modello: sprechi, sovracapacità produttiva, corruzione, concorrenza interna distruttiva e deflazione. L’economia rallenta e i consumi stagnano.
Ma secondo Wang e Kroeber, gli scettici sbagliano bersaglio: questi difetti non bastano a compromettere la traiettoria tecnologica cinese. Il successo di Pechino non deriva solo dal sostegno finanziario o dalla pianificazione settoriale, ma da un disegno più profondo: la costruzione di una “infrastruttura di sistema” — energetica, digitale, industriale e umana — che rende possibile l’innovazione su vasta scala. È un modello “olistico”, una strategia coerente che consente di sviluppare rapidamente nuove tecnologie e portarle alla produzione di massa.

Negli ultimi trent’anni, la Cina ha costruito un sistema infrastrutturale senza precedenti: una rete autostradale doppia rispetto all’interstatale americana, la più estesa rete ferroviaria ad alta velocità del mondo (più lunga di tutte le altre messe insieme), e porti colossali come Shanghai, che movimenta più merci di tutti i porti statunitensi combinati. 

Questa rete ha reso il territorio cinese un sistema produttivo integrato, capace di trasferire merci, componenti e manodopera a costi bassissimi e in tempi ridotti. La logistica diventa così un vantaggio competitivo strutturale.

Un secondo pilastro è l’infrastruttura digitale. Contrariamente alle previsioni occidentali degli anni Duemila — secondo cui Internet avrebbe eroso l’autoritarismo — Pechino ha connesso l’intera popolazione creando al contempo una rete nazionale chiusa, filtrata e monitorata. Questo ecosistema controllato ha alimentato il boom del digitale, di cui la Cina è diventata pioniere grazie all’uso massiccio degli smartphone e all’ascesa di piattaforme come Tencent, Alibaba e ByteDance. L’industria digitale non solo non ha indebolito il Partito comunista, ma ha rafforzato la sua capacità di controllo e gestione, fornendo al tempo stesso un motore di innovazione tecnologica.

Il terzo pilastro è la rete elettrica. Negli ultimi venticinque anni la Cina ha aggiunto ogni anno una capacità pari all’intera produzione elettrica del Regno Unito. Oggi genera più elettricità di Stati Uniti e Unione Europea insieme. Ha investito nelle linee ad altissima tensione che trasportano energia per migliaia di chilometri con minime perdite e ha costruito enormi capacità di stoccaggio in batterie. L’abbondanza di energia elettrica a basso costo è il fondamento dell’industrializzazione verde: treni ad alta velocità, auto elettriche, intelligenza artificiale. Mentre a livello mondiale l’elettricità copre circa il 21% del consumo energetico, in Cina questa quota è già vicina al 30%, e cresce al ritmo del 6% annuo, più del doppio della media mondiale. Pechino è sulla strada di un’economia elettrificata, meno dipendente dai combustibili fossili e con vantaggi strategici nei settori energivori.

Infine, la Cina dispone di oltre 70 milioni di lavoratori industriali qualificati, la più ampia manodopera manifatturiera del pianeta. Decenni di catene di fornitura complesse hanno generato un sapere pratico su come fabbricare e migliorare i prodotti, ottimizzando costi e qualità. Questa conoscenza tacita è ciò che permette ai cinesi di passare rapidamente da un settore all’altro: un operaio che assemblava iPhone può in pochi anni produrre droni o batterie per auto elettriche. È la base dell’innovazione incrementale e della capacità di scalare rapidamente le nuove tecnologie. Il capitale umano, più che i sussidi, è l’asset economico più prezioso della Cina — e il più sottovalutato dagli osservatori occidentali.

Il successo simbolico del 2025 è l’impresa di Xiaomi, che con la sua prima auto elettrica ha stabilito un record di velocità sul circuito tedesco del Nürburgring. L’azienda, nota per smartphone e piccoli elettrodomestici, ha impiegato pochi anni per entrare nel settore dei veicoli elettrici, grazie a un ecosistema industriale integrato e a una filiera di batterie e componenti elettronici domestica. Il confronto con Apple è illuminante: la multinazionale americana tentò a lungo di sviluppare un’auto elettrica, investendo miliardi, ma abbandonò il progetto nel 2024 per mancanza di infrastrutture e capacità produttiva interne. Gli Stati Uniti, pur ricchi di capitale e ricerca, non dispongono più dell’ecosistema manifatturiero necessario a produrre su larga scala. La stessa Tesla oggi perde quote di mercato in Cina, dove i consumatori percepiscono i marchi nazionali come più innovativi e più rapidi nell’adattarsi.

Le contraddizioni del modello? Il successo cinese ha un prezzo. Le politiche industriali generose hanno alimentato sprechi, corruzione e sovracapacità. Interi settori — dai pannelli solari agli smartphone — soffrono di concorrenza eccessiva e margini sottilissimi. Nel campo dei semiconduttori, il governo ha investito oltre 100 miliardi di dollari dal 2014, ma parte di quei fondi è finita in progetti fraudolenti o in corruzione: diversi dirigenti di aziende pubbliche e ministri sono stati incarcerati.

L’eccesso di offerta provoca deflazione, scoraggia le imprese dall’aumentare salari e occupazione, e quindi deprime la domanda interna. I consumatori riducono le spese, i prezzi delle case scendono, le aziende riducono gli investimenti: un circolo vizioso che rende difficile raggiungere persino l’obiettivo ufficiale di crescita del 5%. Il rallentamento dei consumi obbliga le industrie a esportare sempre di più: il surplus commerciale cinese supera ormai i 1.000 miliardi di dollari, più del doppio di cinque anni fa. Questo rischia di innescare nuove reazioni protezionistiche in Occidente.

Tuttavia, gli autori osservano che Pechino è abituata a gestire squilibri di questo tipo. Sta già riducendo i sussidi più distorsivi, lasciando che i produttori meno efficienti escano dal mercato. Nel settore delle auto elettriche, il numero di marchi è sceso da 57 a 49 dal 2022, mentre cresce la quota delle imprese in grado di produrre volumi significativi.

Sul fronte estero, la Cina trova sempre modi per aggirare i dazi — aprendo stabilimenti in Brasile o Ungheria, o esportando attraverso Paesi terzi. E sul piano politico Xi Jinping ribadisce la priorità: «Non dobbiamo mai deindustrializzarci». Meglio una crescita più lenta ma tecnologicamente autonoma che una crescita rapida dipendente dalle importazioni.

Gli Stati Uniti hanno reagito al successo di “Made in China 2025” cercando di bloccare l’accesso cinese alle tecnologie avanzate. Dal 2018 Washington ha imposto severi controlli all’export di chip e macchinari per la loro produzione, sperando di soffocare la rincorsa di Pechino. L’iniziativa è stata bipartisan: Biden ha mantenuto e persino rafforzato le restrizioni di Trump. I risultati però sono stati parziali. Alcune imprese cinesi, come ZTE o Fujian Jinhua, hanno vacillato. Altre, più robuste, hanno reagito con efficacia. Huawei, colpita nel 2019, ha visto tornare nel 2024 i ricavi ai livelli pre-sanzioni e oggi produce anche semiconduttori. SMIC ha raddoppiato i ricavi e raggiunto la produzione di chip a 7 nanometri, che si riteneva impossibile senza macchinari occidentali.

Nel campo dell’intelligenza artificiale, aziende come DeepSeek hanno creato modelli linguistici all’avanguardia, distanti solo pochi mesi dai leader Usa della Silicon Valley. Il segreto: abbondanza di dati, talenti, energia elettrica a basso costo. Le restrizioni americane hanno stimolato in Cina l’autosufficienza tecnologica.
Per contrastare la Cina, Washington ha varato proprie politiche industriali: sotto la presidenza Biden il CHIPS Act per rilanciare la produzione di semiconduttori, e l’Inflation Reduction Act per le tecnologie pulite. Secondo Wang e Kroeber, questi piani hanno dato risultati modesti. Gli Stati Uniti non dispongono della «infrastruttura profonda» che sarebbe necessaria. I progetti di connettività universale (“Internet for All”) e di rete di ricarica per auto elettriche non sono partiti. Le barriere burocratiche frenano la costruzione di nuove linee elettriche o impianti solari.

Nel 2025, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, molti di quei programmi di politica industriale sono stati smantellati. La manifattura americana continua a contrarsi: tra aprile e luglio 2025 si sono persi oltre 10.000 posti industriali. La produzione reale è ancora sotto i livelli del 2008, persino nei settori della difesa, dove navi e munizioni vengono consegnate con anni di ritardo.

Gli Stati Uniti mantengono vantaggi in settori come software, biotecnologie e università, ma anche qui la tendenza è negativa: tagli ai fondi per la ricerca, ostilità verso gli immigrati e controlli ideologici sulle università minano la capacità innovativa a lungo termine.

Per gli autori, gli Stati Uniti non possono più limitarsi a cercare di «fermare la Cina»: devono ricostruire sé stessi. Il problema non è solo congiunturale o politico, ma culturale: Washington sottovaluta la competenza di Pechino. Molti politici americani continuano a ripetere che «la Cina non innova, ruba», ma questa retorica nega la realtà di un Paese che ha saputo formare milioni di ingegneri, costruire infrastrutture e creare ecosistemi tecnologici integrati.
Gli Stati Uniti, invece, «mandano avvocati a combattere una guerra di ingegneria». Per tornare competitivi devono ripensare il proprio modello produttivo, accettando la necessità di grandi investimenti pubblici di lungo periodo.

Il modello cinese, pur con tutti i suoi difetti, funziona. Ha prodotto infrastrutture, capitale umano e un sistema integrato di imprese e tecnologie. I costi — rallentamento, deflazione, eccesso di offerta — sono il prezzo pagato per la leadership industriale. La priorità di Xi Jinping non è la crescita del PIL, ma l’autosufficienza strategica: controllare le tecnologie chiave e garantire che la Cina non dipenda più da fornitori esterni nei settori critici del futuro. Il «vero modello cinese» descritto da Wang e Kroeber è un ibrido tra capitalismo di Stato e ingegneria sistemica, fondato non su piani quinquennali rigidi ma su infrastrutture flessibili, energia abbondante, reti digitali pervasive e un sapere manifatturiero diffuso. È un modello che privilegia la resilienza tecnologica. Si è rivelato sorprendentemente efficace nel costruire potenza economica e capacità industriale. Gli autori invitano gli Stati Uniti a trarre una lezione: la competizione con la Cina si vince con una strategia di «costruzione nazionale».

16 ottobre 2025

16 ottobre 2025

Fonte Originale