L’autismo, declinato in tutti i suoi differenti spettri, sembra diventato argomento di moda per il cinema, dove sempre più spesso si incontrano personaggi alle prese con alcune delle difficoltà che i disturbi evolutivi dello sviluppo psicologico possono portare.
E non perché sia diventato un «disturbo di moda», ma piuttosto perché è molto cinematografico, nel senso che permette facilmente di spostare l’interesse da chi ne soffre a chi deve fare i conti con le conseguenze. Dal soggetto autistico al soggetto «normale» (anche se poi tanto «normale» non apparirà mai…).
È la strada che prende anche In viaggio con mio figlio, dove lo sceneggiatore Tony Spiridakis ha ripercorso parte del suo rapporto con il figlio Dimitri, a cui era stata diagnosticata una forma di autismo. E dove – Hollywood oblige: il regista si chiama Tony Goldwyn, nipote del celeberrimo Samuel, uno dei fondatori della Metro Goldwyn Mayer – il vero protagonista è Max (Bobby Cannavale) e non il figlio Ezra (William A. Fitzgerald, realmente sofferente per una forma di autismo).
Max è uno stand-up comedian che sta attraversando un momento piuttosto delicato della sua carriera artistica: per i suoi monologhi prende spunto dal rapporto col figlio che però finisce per farlo scivolare verso temi più seri, come gli fa notare la sua agente Jayne (Whoopy Goldberg) che deve far fronte alle critiche di chi lo scrittura.
Ma è in crisi anche la sua vita privata: separato dalla moglie Jenna (Rose Byrne), fatica a mantenere quell’unità di intenti per il figlio che si erano ripromessi quando il loro matrimonio è entrato in crisi.
Lui, Max, vorrebbe che il figlio avesse una vita «normale» specie a scuola, ma a volte i comportamenti di Ezra innescano pericolose reazioni dei compagni e allora ai genitori tocca affrontare le recriminazioni degli insegnanti. Con la conseguenza che il ragazzo ha già cambiato quattro scuole e all’inizio del film è sul punto di essere espulso dalla quinta.
A peggiorare la situazione arriva una battuta infelice del compagno di Jenna (interpretato dallo stesso regista, e attore, Tony Goldwyn), che Ezra ascolta di nascosto e di cui non sa capire l’evidente ironia, tanto da spingerlo a scappare di notte per andare ad avvertire il padre: ma per sfuggire a un cane che abbaia finisce per farsi investire da un taxi, con inevitabile ricovero in ospedale.
E altrettanto inevitabili procedure obbligatorie per legge, che Max non vuole accettare, a partire dalla somministrazione di un farmaco che aiuti a sopire le reazioni del ragazzo.
Conseguenze: Max passa una notte in carcere per aver aggredito il medico e si guadagna un’ingiunzione restrittiva che lo obbliga a stare lontano dal figlio per tre mesi mentre Ezra finisce in una scuola per bambini con gravi disfunzionalità.
A complicare la situazione di Max ci si mette poi suo padre Stan (Robert De Niro), portiere in un condominio con più di un conto in sospeso – affettivamente parlando – col figlio proprio quando un importante impresario di Los Angeles si sta interessando a lui.
A questo punto il meccanismo narrativo si svela: Ezra e il suo autismo sono solo (o quasi) un pretesto per scavare nel personaggio di un uomo che dovrebbe essere «normale» e che invece nasconde le insicurezze e le nevrosi di una vita altrettanto «normale»: i dubbi sul proprio valore, la difficoltà ad accettare la separazione, il rapporto con la figura paterna (quella del proprio genitore e quella personale) che si fondono e si confondono in un grumo di domande inespresse o troppo a lungo differite.
Oltre al rapporto col figlio, a cui riversa un’attenzione e un affetto che a volte sembrano eccessivi (non sarà un caso se Ezra non sopporta di farsi abbracciare) e a volte invece gli scatenano reazioni spropositate e sbagliate. Come l’idea di «rapirlo».
Niente di veramente sorprendente, intendiamoci, ma raccontato con quella «calma tranquilla» e professionale che Hollywood a volte sa ritrovare e che regala uno spettacolo dove non ti sembra di aver sprecato il tuo tempo.
19 aprile 2025
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