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La lettera sui dazi, il «bullismo economico»: cosa vuole Trump dall’Unione europea?

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A maggio, celebrando i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, Donald Trump aveva dato per fatti 200 accordi commerciali. Due mesi dopo ne ha siglati, ad essere generosi, tre: con la Gran Bretagna, con la Cina (in realtà è una tregua) e con il Vietnam (un mezzo accordo che rischia di saltare). 

Arrabbiato per non essere riuscito a imporre le sue doti di dealmaker, reso più baldanzoso dall’assenza di grosse reazioni dei mercati finanziari alle sue ultime scudisciate sui dazi, dal Brasile al Canada, meno condizionato dai ministri, come quello del Tesoro Scott Bessent, che lo vorrebbero più prudente, il presidente Usa ha ripreso l’offensiva commerciale in grande stile senza fare sconti agli alleati. Nell’immediato si è sentito incoraggiato anche da alcuni dati congiunturali. Da un lato l’elevato livello degli incassi per dazi: dall’inizio dell’anno gli introiti Usa da tariffe hanno già superato i 100 miliardi di dollari e, secondo Bessent, a dicembre si potrebbe arrivare a quota 300: non bastano di certo a colmare l’enorme deficit pubblico né a compensare gli sgravi fiscali, ma comunque costituiscono un grosso aumento delle entrate. Dall’altro lato, ancora non si è materializzata la temuta fiammata dell’inflazione. Probabilmente perché l’economia sta rallentando: Pil con segno meno nel primo trimestre e conseguente calo della domanda che riduce la pressione sui prezzi. Gli economisti avvertono che i dazi fanno danni perché rallentano l’economia in tutto il mondo, Usa compresi, ma Trump continua a respingere queste diagnosi: si dice sicuro che i suoi sgravi fiscali faranno crescere il reddito nazionale a tassi (anche sopra il 6% annuo) mai visti prima (e considerati inverosimili anche dagli analisti di Wall Street di fede repubblicana).

Se questi sono i motivi immediati che hanno spinto il presidente alle forzature contenute nella minacciosa lettera resa nota ieri, a meno di tre settimane dalla scadenza da lui stesso fissata per i negoziati attualmente in corso, l’atteggiamento di fondo di Trump rimane sempre lo stesso: torna il «bullismo economico» nei confronti dell’Europa al quale aveva momentaneamente rinunciato ad aprile dopo il crollo dei mercati finanziari e il parallelo indebolimento del dollaro e dei titoli del Tesoro Usa. Allarmante segnale, quest’ultimo, di una perdita di fiducia del mondo del risparmio che non sembra vedere più negli Stati Uniti e nella sua valuta un porto sicuro nei momenti di tempesta.

Stavolta lo schiaffo di Trump, più ancora che in quell’inatteso 30%, sta nell’intimazione a non reagire, pena un raddoppio dei dazi portandoli al 60%. Minacce rivolte a europei, che, pure, hanno fin qui seguito la linea dell’appeasement, rinunciando a sbandierare la preparazione di corpose rappresaglie (anche se si è lavorato su due pacchetti di possibili penalizzazioni delle importazioni dagli Usa rispettivamente del valore di 21 e 95 miliardi di euro). Anzi, Bruxelles aveva mandato un messaggio di volontà di accordo tanto consistente quanto imbarazzante, escludendo le imprese americane dalla tassazione delle multinazionali che operano nell’Unione europea.

Gli unici fin qui trattati con rispetto sono stati i cinesi e i britannici. Trump, si sa, ama picchiare duro i deboli, mentre rispetta chi è in grado di tenergli testa: chi, come dice lui, «ha le carte». E Xi Jinping è molto più forte della Ue, se non altro perché può chiudere i rubinetti delle forniture delle terre rare e di componentistica indispensabili per l’industria hi-tech.

Privi di quelle «carte», i negoziatori europei hanno promesso che il Vecchio continente comprerà dagli Stati Uniti più gas e più armi e poi hanno provato a seguire il modello britannico degli accordi con esenzioni per settori. Londra le ha ottenute, ad esempio, per l’aeronautica e l’auto. Ma i motori avio della Rolls Royce sono indispensabili (assieme a quelli Usa di GE e Pratt & Whitney) per la Boeing e le auto britanniche che arrivano oltre Oceano sono appena centomila. Mentre europei, giapponesi e coreani, che vorrebbero le stesse esenzioni, esportano negli Usa 4,5 milioni di veicoli: un’esenzione, agli occhi di Trump, sarebbe la rinuncia a un pilastro della sua strategia commerciale.

E, allora, meglio picchiare duro, puntando su altre debolezze dell’Europa che non solo non ha terre rare ma, benché mercato unico con una sola autorità commerciale, ha divisioni economiche interne che potrebbe essere facile far emergere e, magari, deflagrare. Basti dire che il cancelliere tedesco Merz vorrebbe concentrare gli sforzi negoziali su 4 settori (auto, chimica, farmaceutica, meccanica) dimenticando l’alimentare, essenziale per l’Italia.

12 luglio 2025

12 luglio 2025

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