La cuffietta: il racconto di Marco Pogliani

di Marco Pogliani Due cuffiette del cellulare cadono e rotolano sulle rotaie dov’è fermo un Frecciarossa. Un uomo in Loden si avvicina per aiutare il protagonista: una storia da Milano Centrale

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Amo il treno. Amo quel filare sicuro nella luce e nella notte. Amo quel non vedere dove si va se non per vedere quelli che ti stanno guardando. Amo quando parte e quando si ferma. Amo il mio posto (sempre quello se possibile, 18D). Amo quel fare casa con niente. Un tavolino, una poltrona, una finestra, una presa della corrente. Persino il bagno, sia pur puzzolente.

Poi ci sono i ritardi, i guasti, gli imprevisti. È incredibile come quella stanzetta viaggiante possa diventare una cella, una prigione, la perdita della speranza. Poi si riparte e poi si arriva. Si arriva sempre. Con la propria stanzetta.

Amo il treno. E mi prende un po’ di ansia quando devo chiudere la mia stanzetta, passare le porte vetri, affrontare il portellone del vagone, scendere per ripidi scalini e atterrare nella nuova città. Sono sempre nella prima o nell’ultima, carrozza. Preferisco l’ultima. Scendo, vedo gli altri che mi son davanti e mi passa l’dea che la città, specie la sera, mi stia aspettando con le fauci spalancate per masticarmi e inghiottirmi. La musica aiuta, specie nelle notti fredde e umide di Milano.

Quella sera era l’ultima carrozza. Ero stato colto di sorpresa dall’arrivo della carrozza. Stavo rimontando la corrente, terrorizzato di restar chiuso nella stanzetta o di lasciarvi qualcosa di importante, come quella volta che vi lasciai il telefono e una gentile infermiera di Pisa mi chiamò di averlo trovato. Mandai a riprenderlo e la sua voce mi disse che era felice per me.

Le ultime nate nelle mie tasche sono le cuffiette del cellulare. Bianche, senza fili, infide. Hanno la loro scatoletta. Le estrai. Magicamente si collegano quando le introduci nell’orecchio sfidando qualsiasi logica fisica. Sono oggetti esili e di una forza straordinaria. Bisogna saperle maneggiare.

Io ero giovane di cuffiette (non che ora si rivelino meno infide). Scendendo dal vagone non solo loro ma anche la loro lattea scatoletta presero il volo. Atterrarono con una leggerezza vellutata. La scatoletta a sinistra. Una cuffietta a destra. Ma la seconda, presa da una insospettabile dinamicità attraversò tutta la banchina per tuffarsi nel binario seguente. Peccato ci fosse sopra un Fracciarossa.

Non riuscii a trattenermi. Tutta la tranquillità del treno si tramutò in un grido strozzato che si azzittì solo quando i tre oggetti ebbero terminato i loro tragitti. Raccolsi i due pezzi rimasti visibili. Poi mi affacciai sotto il Frecciarossa. Mi ritrassi immediatamente. Vedere da vicino un treno è un’esperienza. Da dentro c’è stanzetta. Da fuori è un enorme ammasso di ferro e acciaio. Un mostro. Un essere che allontana qualsiasi relazione.

Della cuffietta neanche l’ombra, naturalmente. Era stata inghiottita dalla pancia del treno in un nero senza compromessi. Eppure, stavo lì, inebetito, a cercare una traccia, un baluginio, una speranza.

«Non si preoccupi, parte tra poco», una voce mi trasse da quell’inebetimento. Già, mi dissi, sei un cretino: un treno non è per sempre. Pronto a ringraziare la divisa del controllore, mi volsi verso la voce e ritrovai di fronte al più classico dei Loden. Verde, naturalmente con un Borsalino a piuma.

Un Loden verde (specie con Borsalino a piuma) vuol dire tante cose. È Milano. Anzi, una certa Milano. Un esercito di persone aperte, cordiali, disponibili. Una città che si considera meglio delle altre, ma non lo dice. Una Milano per bene. Da bere, a volte ma sempre con moderazione.

Io odio i Loden. Mi sembra che non lascino nulla all’immaginazione. Che siano necessariamente i prolungamenti dei pantaloni corti degli Scout. Mi sembrano una non scelta. Ma, oggettivamente, quella volta non potei che rivolgermi con simpatia ai due baffi che spuntavano sotto il Borsalino a piuma.

«Quattro minuti e il Frecciarossa parte — disse il Loden sorridente. E poi sicuramente la troviamo». Ecco il Loden tende sempre ad esagerare. Va bene, sono un cretino. Non sono capace di gestire le cuffiette. Mi sono perso di fronte al Frecciarossa. Non ho reagito controllando l’orario di partenza, tu sì. Tu l’hai fatto, grazie. Hai avuto anche la squisita gentilezza di trarmi dall’inebetimento, grazie ancora. Ma adesso cos’è questo «troviamo»? Esageri, o Loden. Non c’è nessun «noi». C’è il mio dramma. Ho perso la mia cuffietta. Nuova per giunta. Mi hai aiutato. Ma non c’è nessun «noi». Lasciami fare. Lasciami disperare. Lasciami recuperare. Mi hai rialzato. Mi hai dato una speranza. Mollami.

Furono i quattro minuti più lunghi della mia vita. Perché il Loden parla sempre. Trova disdicevole abbandonare il dialogo, il confronto e soprattutto la descrizione. Perché questo è lo specifico del Loden: la descrizione. Il Loden è capace di parlare sempre, di interloquire con chiunque, soprattutto con gli altri Loden. Il suo modo di esprimersi è sorridente, continuo e privo di qualsiasi interesse. Suo e del suo interlocutore. Due Loden possono parlare per ore e ore senza smettere mai, senza annoiarsi mai e soprattutto senza dire mai niente. Descrivono, descrivono continuamente la loro realtà e quella degli altri con nessi semplici e diretti che richiedono interlocuzioni altrettanto banali e immediate.

Il punto di partenza può essere qualsiasi.

Loden 1: «Ieri sono andato in metrò. C’era un sacco di gente»
Loden 2: «Anch’io. Ma non c’era tantissima gente. A che ora sei andato?»
Loden 1: «Alle 8, più o meno»
Loden 2: «Certo a quell’ora…»
Loden 1: «Neanche il Covid ha cambiato le nostre abitudini»
Loden 2: «Certo che ce n’è ancora in giro un sacco»
Loden 1: «Di metrò. Veramente io l’ho aspettato a lungo ieri. A New York arrivano prima»
Loden 2: «No, di Covid»
Loden 1: «Ah, di Covid. Ancora?»
Loden 2: «Certo. Io al primo colpo di tosse, mi metto ancora la mascherina. Per rispetto, degli altri 2»
Loden 1: «Secondo me non ce la raccontano giusta. Tu ti sei vaccinato?»
Loden 2: «Sì, ma adesso no. Basta porcherie in corpo»
Loden 1: «Fosse solo per quello. Hai sentito che aria pesante oggi in centro?»
Loden 2: «Terribile. Ti senti la gola in fiamme»
Loden 1: «Ma vedrai che l’Europa interviene. Non si può andare aventi così»
Loden 2: «Noi abbiamo comprato il depuratore in casa»
Loden 1: «Dell’aria?»
Loden 2: «No dell’acqua. E pensare che c’è qualcuno che compra le bottiglie di acqua minerale»
Loden 1: «Noi abbiamo rinunciato da tempo ormai. A meno che non si tratti di San Pellegrino»
Loden 2: «Perché, la Perrier?»

Il mio Loden mi si affiancò in quei quattro minuti, cominciando ad agitarsi solo quando il Frecciarossa accumulò 30 secondi di ritardo per aspettare un viaggiatore in ritardo, naturalmente di classe Economica che arrivò sbracciandosi sul binario. Io non dissi una parola, salvo partecipare allo sforzo del passeggero economico. Loden no. A condanna del passeggero economico e del capotreno (pure economico) si era inerpicato nel più classico degli elogi della preparazione. Negli studi, nella vita, nella organizzazione, di se stessi e degli altri. È da lì che dobbiamo ripartire. Migliori studi, meglio se di ingegneria (i suoi). Prima studi classici, poi ingegneria. Si fa un po’ di fatica in più. Ma poi tutto è in discesa. La vita, il lavoro, le relazioni. Non lo diceva, ma stava parlando di sé. Della sua prontezza nel prendere atto della situazione, della sua capacità di analisi, della sua competenza nel consultare le fonti, nella sua disponibilità ad essere caritatevole. Un uomo totale, capace e pieno di buoni sentimenti. Non lo diceva, ma stava marcando le differenze da me, che avevo abbandonato la mia cuffietta perché impreparato. Lo sentivo e lo pativo.

«Ancora pochi secondi e tutto sarà a posto». Mi sforzai di sorridergli.

Il treno mosse accompagnato dai nostri sguardi in basso. Il Frecciarossa sfilò tutto, lunghissimo, dal locomotore fino all’ultima e sfigata carrozza. Loden ebbe ancora il tempo di ammiccare con tutta la sua soddisfazione. Tra un nulla la cuffietta si sarebbe rivelata in tutto il suo biancore nello spazio tra i binari che non poteva essere di un terribile color sporco-merda.

Anche l’ultima ombra svanì. Loden e io rimanemmo quasi soli nella lunghissima stazione, lo sguardo fisso a terra. Io non so se guardate mai a binari senza treno. Io penso di no, almeno in stazione. Non c’è alcun colore sporco-merda. È tutto bianco: bianchi i binari, bianchi i sassi, bianche le sponde. Tutto bianco, come la cuffietta. Loden cercò di trattenere la delusione. Io non riuscii a sottrargli un’unghia di soddisfazione. Immobili tutti e due. Fermi, distrutti, insensati.

A distrarci dalle nostre rivendicazioni nei confronti dei binari, arrivò una voce forte e tuonante: «Problema? Avete problema? Diteme, diteme». Quattro occhi (due in Loden) si voltarono verso questa esplosione di energia nuova. Era il conduttore di uno di quei trenini elettrici che sfidano la concorrenza dei viaggiatori per portare sui treni in partenza ciò che li accudirà durante il viaggio, a pagamento o meno.

Loden continuò a tacere, mentre io balbettai qualcosa rispetto alla cuffietta e ai binari. «Non problema, trovo io, trovo io!». L’esagitato conducente, un ragazzotto di colore pieno di vita, saltò direttamente dal suo posto di guida sul binario lasciato vuoto dal Frecciarossa. Si piegò con inusitata agilità, ravanò sotto per qualche istante e riemerse con la mia cuffietta: «Trovato! Trovato!».

Fui talmente sorpreso, che non fui sufficientemente pronto nel ringraziarlo. Restai a guardarlo, entusiasta e sorridente. Mi ripresi e misi mano al portafoglio. «Ma no, ma no, capo! Non serve!». Poi li prese. Anche perché nella confusione avevo afferrato quello che capitava. Il mio salvatore se ne andò guidando il suo trenino contento e cantante.

Non fu necessario né voltarsi né cominciare una nuova conversazione. Loden si era già incamminato. Lo seguii sulla lunga banchina. Stava parlando al cellulare del tempo del giorno dopo. Io cantavo. La stessa nenia del conduttore del trenino.

1 gennaio 2025 (modifica il 1 gennaio 2025 | 18:03)

1 gennaio 2025 (modifica il 1 gennaio 2025 | 18:03)