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Kristin Scott Thomas: «Metto in scena la storia della mia vita, esorcizzo i due padri che ho perso da bambina»

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Southampton, East End di Long Island, anteprima mondiale del primo film da regista di Kristin Scott Thomas, grande attrice inglese: «Under the Cherry Moon» di Prince (1986), «Quattro matrimoni e un funerale» con Hugh Grant (1992), naturalmente il celeberrimo «Il paziente inglese» per il quale fu candidata all’Oscar. Scott Thomas ha continuato a lavorare con successo sia nel cinema che a teatro e adesso in televisione: è co-protagonista in «Slow Horses» (Covo di Bastardi), serie televisiva di grande successo di pubblico e di critica.
In questa sua opera prima, «My Mother’s Wedding», Kristin esplora la perdita del padre biologico quando aveva appena sei anni e di quello adottivo quando ne aveva 11. Gli eventi, gli intrecci con le sorelle e le rivelazioni esplodono proprio durante la celebrazione del terzo matrimonio della madre, interpretata da lei, Kristin, con Scarlett Johansson, Sienna Miller e Emily Beecham. Il film decolla in modo graduale, arrivando ad esprimere una forte componente emotiva. Sarà in Europa in autunno e l’8 agosto uscirà in 280 sale in tutti gli USA. Kristin lo ha scritto durante il Covid con colui che sarebbe diventato suo marito, il giornalista John Micklethwait, direttore globale di Bloomberg News, anche lui al suo debutto nel cinema.
Kristin, ci racconti il passaggio da attrice a regista.
«È molto personale, ma anche fantasioso: fino ad allora la storia era solo tragica, la perdita di due padri in pochi anni, sempre narrata da terze persone che non la conoscevano bene. Sentivo la necessità di chiarire: sì, cose tragiche possono capitare anche ai bambini, ma poi ci si adatta, tutto si normalizza. Il film ha anche tratti leggeri con persone che si sono poi affermate nella maturità, nella consapevolezza che la normalità è possibile».
Nel film siete tre sorelle, nella realtà?
«Siamo in cinque e alcune di noi non avevano idea di chi fosse davvero il loro padre. C’erano fotografie, ma nessun ricordo vivo. Io, la più grande, me la cavavo meglio, perché avevo sei anni quando mio padre morì e 11 anni quando se ne andò il mio secondo padre. Erano anche i migliori amici tra di loro. Il momento più forte? Quando nel film stringo le mani delle mie sorelline: la televisione ha appena dato la notizia dell’eroica morte in azione di nostro padre adottivo, un momento terribile, in diretta. Avevano lo stesso nome, Simon, tutti e due giovanissimi e morti nello stesso modo, pilotando un aereo della Royal Navy, al servizio del Paese».
Sentiva da tempo l’urgenza di passare alla regia?
«Sì, ma non sapevo quanto l’esperienza sarebbe stata straordinaria. Quando sei sul set con colleghi bravissimi, non ti accorgi delle loro qualità. Ma, dietro la macchina da presa, lo vedi eccome. Fare regia significa mettere a fuoco il talento per farlo fiorire, una cosa eccitante, come avere le chiavi di una Ferrari e improvvisamente si accelera per poi frenare o prendere curve azzardate. Scarlett è stata bravissima, può fare qualunque cosa, e Sienna anche. Tra l’altro è la terza volta che recito come madre di Scarlett, la prima ne «L’uomo che sussurrava ai cavalli», la seconda ne «L’altra donna del Re» e ora questa».
Cosa vuol dire essere registi di sé stessi?
«È stato molto difficile, mi sembrava di passeggiare davanti a una vetrina quando sbirci di nascosto la tua immagine. Molto difficile, ma alla fine ha funzionato».
Come ha costruito il film?
«I semi centrali della storia erano la parte animata, i ricordi più profondi nella tua testa, quelli emotivi, i momenti passati coi padri e le brutte notizie. Poi abbiamo messo la madre e tre sorelle, che è anche un classico dei drammi teatrali, vedi Cechov. Qui la madre non era neppure lontanamente mia madre nella realtà. È una figura ideale, è la madre che avrei voluto avere e quella che avrei voluto essere».
Come è stato lavorare con suo marito?
«Eravamo “single” e isolati in campagna per il Covid non ancora sposati. E abbiamo deciso di cogliere l’occasione per creare qualcosa. Io non avevo mai scritto, ma John è un giornalista, dunque ha dato la struttura, io ho seguito più i dialoghi».
Nel film in chiusura appare Perky Person che rivendica di essere amicissimo di suo padre.
«Perky Person non esiste. Ma a un matrimonio in famiglia, quando avevo 30 anni, un tizio mi dice: “ero il miglior amico di mio padre”. Lo guardo: è anziano, senza capelli e grassoccio. Mio padre era un uomo giovane di 29 anni, biondo, bellissimo. Come si permetteva? Il fatto è che nella nostra testa restiamo fermi a quel che sappiamo, dovevo anche esorcizzare un pochino quel signore nel film, cosi Perky è un uomo distinto, anziano con delle medaglie che saluta allontanandosi. Avrebbe potuto essere mio padre se fosse vissuto».

5 agosto 2025

5 agosto 2025

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