
Kenzaburo Oe visitò Hiroshima per la prima volta nel 1960. Lo scrittore giapponese sarebbe tornato spesso nella città sulla quale, alle 8.15 del mattino del 6 agosto 1945, cadde l’atomica americana, provocando 140 mila morti ai quali si sarebbero aggiunti i 70 mila del secondo bombardamento (Nagasaki, 9 agosto) e, nel corso degli anni, le vittime delle radiazioni, almeno 400 mila. Oe (1935-2023) si lasciò avvolgere dalla «membrana di polvere» che gravava sulla città, ascoltò i «sospiri dolenti» e i «lunghi silenzi» di una popolazione martoriata. I resoconti dei suoi soggiorni a Hiroshima, dal 1963 più frequenti, presero nel giro di pochi anni la forma di un diario o memoriale, che nella sua capacità di intercettare una tragedia corale risuonava con un dramma personale: la nascita di un figlio segnato da una grave disabilità. Va cercato anche qui l’innesco emotivo delle Note su Hiroshima di Oe, che il «Corriere della Sera» porta in edicola per i suoi lettori da martedì 5 agosto, nella traduzione di Gianluca Coci, in occasione degli ottant’anni dal duplice bombardamento. Sono pagine dove la spietata asciuttezza della prosa invita a fare i conti con un male irriducibile e irredimibile.
Le Note uscirono nel 1965. L’autore che nel 1994 avrebbe ricevuto il premio Nobel per la Letteratura vi constata che, a vent’anni dal massacro e in piena guerra fredda, «la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta sta oggi tentando di dimenticare Hiroshima». L’incubo della rimozione. È un riflesso istintivo e naturale, riconosce Oe: chiunque cerca di superare le «tragedie personali, gravi o trascurabili che siano», tuttavia qui dimenticare si rivelerebbe una scelta immorale. Sono i sopravvissuti, gli hibakusha che Oe incontra e di cui narra il tormento, a imporre la memoria della Bomba, perché loro non hanno alternative: appena uno comincia «a manifestare i sintomi di una malattia da radiazioni, non può più né dimenticare né fuggire», e noi — sembra ammonirci l’autore — dobbiamo essere al loro fianco.
Al loro fianco Oe lo è stato. Facendosi paladino, in Giappone, delle istanze pacifiste, così invise agli strati più nazionalisti o tradizionalisti della popolazione; contestando per decenni i rigurgiti revanscisti e la retorica autoassolutoria che a Tokyo spesso ometteva (e ancora omette) il passato imperialista e militarista del Paese; puntando deciso, benché disilluso, verso «il castello incantato delle favole, ossia verso il sogno della denuclearizzazione». Oe ribadì l’obiettivo con forza anche dopo lo tsunami e il disastro nucleare della centrale di Fukushima, nel 2011, quando invocò il bando perpetuo dei reattori nucleari. In Note su Hiroshima Oe si aggira tra le anime del movimento pacifista nipponico del tempo, le spaccature tra le correnti (i socialisti, i comunisti, le associazioni…), le implicazioni politiche nazionali e internazionali (la Cina con i suoi primi test, l’Urss, gli Usa…), un grottesco ronzare di incomprensioni a fronte di un’enormità inaggirabile. Un contesto ideologicamente obsoleto, sì, ma attualissimo nelle dinamiche.
Naturalmente sono le persone il nucleo ardente del libro. Hiroshima assiste a un paradossale rovesciamento dell’ordine naturale: a un paio di decenni dall’esplosione muoiono i giovani e vivono i vecchi, e i vecchi che resistono non hanno chi li aspetta se mai dovessero uscire dall’ospedale. Medici coraggiosi che si erano mobilitati il 6 agosto 1945, vent’anni dopo, miracolosamente vivi, attingono alla loro esperienza per trovare cure. Giovani scienziati azzardano innovative statistiche ignorate dai luminari di Tokyo, troppo lontani dall’epicentro e dal dolore. Gli ematologi cercano di venire a capo di leucemie implacabili, le giovani donne deturpate da cicatrici e cheloidi — la parola «cheloide» ricorre con insistita crudezza nelle righe di Oe — spesso si nascondono e battono in ritirata dalla vita.
È la metafora della carne offesa a interpretare il groviglio della moralità: «Hiroshima — scrive Oe — è come una ferita aperta su tutto il genere umano, e al pari di tutte le ferite, anche questa pone due possibili sviluppi: la speranza di guarigione da un lato e il pericolo di un’infezione fatale dall’altro». Dei «mai più» pronunciati da tante parti non ci si può fidare davvero, e infatti Oe tiene il conto dei suicidi di chi — intellettuali come lui o persone comuni, talvolta sopravvissuti — temeva, tra il 1950 e il ’53, che la guerra di Corea offrisse il pretesto per nuovi bombardamenti atomici. E c’è una falsa credenza da smantellare: che gli armamenti nucleari siano la tappa brutale ma necessaria di un progresso tecnologico da ottenere a qualsiasi costo. Quest’idea di scienza è per Oe un’altra oscenità figlia della catastrofe.
Tutto il libro oscilla tra esterno e interno, quello che vede l’occhio di Oe e ciò che si muove a livello profondo, come l’ammirazione per la tenacia di chi si ostina a non cedere alla disperazione e alla malattia. Il percorso di accettazione da parte di molte vittime matura in sfumature sottili. «Il popolo di Hiroshima, nonostante tutto, si è rimesso subito in piedi e si è dato da fare per risanare e ricostruire. Lo ha fatto, è ovvio, per il suo bene, ma inconsapevolmente ha contribuito ad alleggerire la coscienza dei responsabili dell’olocausto». È proprio per questo, per impedire rimozioni e ridimensionamenti, che va coltivata la memoria, che devono essere annotati i fatti. Ecco quindi che gli hibakusha, con la loro «capacità davvero unica di cogliere l’essenza di ciò che è umano e di esprimerla a parole», possono proporsi come involontari maestri. Solo chi ha visto l’umanità negata può offrire una bussola morale fatta di «coraggio» e «speranza».
L’antidoto all’orrore nucleare, suggerisce Oe, sta allora proprio nell’introiettare Hiroshima, lasciare che generi un’etica condivisa: «Provando a riflettere sulla vita e sulla morte, è importante che tutti noi che siamo scampati solo per caso all’olocausto atomico impariamo a considerare Hiroshima come parte intrinseca del Giappone e del mondo intero, in altre parole di noi stessi». Il 6 agosto di tutti.
Per un mese con il «Corriere» a 9,90 euro
Note su Hiroshima di Kenzaburo Oe è in edicola da martedì 5 agosto con il «Corriere della Sera» a euro 9,90 più il prezzo del quotidiano. Il libro (in collaborazione con Garzanti) esce in occasione degli 80 anni dal lancio della bomba atomica su Hiroshima (6 agosto 1945; il 9 toccò a un altro ordigno, su Nagasaki) e sarà in edicola per un mese. Il libro di Oe (1935-2023), premio Nobel per la Letteratura 1994, uscì per la prima volta nel 1965. Nel testo, una sorta di diario-memoriale, affronta la tragedia degli «hibakusha», coloro che sopravvissero all’esplosione, colpiti in modo più o meno grave dalle radiazioni atomiche. Oe andò a Hiroshima per la prima volta nel 1960, e non smise mai, anche dopo l’uscita di questo libro, di occuparsi degli «hibakusha». Da queste pagine nasce un atto d’accusa contro il proliferare delle politiche nucleari ai giorni nostri ancora di angosciante attualità
3 agosto 2025 (modifica il 3 agosto 2025 | 20:19)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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