Home / Cinema e TV / Kasia Smutniak nel mirino dei cattolici polacchi: «È abortista e militante per i rifugiati, togliete quel ruolo»

Kasia Smutniak nel mirino dei cattolici polacchi: «È abortista e militante per i rifugiati, togliete quel ruolo»

//?#

«Togliete quel ruolo a Kasia Smutniak», dicono minacciosi gli oltranzisti cattolici polacchi. L’attrice, nel secondo film di Mel Gibson su Gesù, La Resurrezione di Cristo, che si gira a Cinecittà, interpreta la Vergine Maria. La destra conservatrice e sovranista, in cui si riconosce il presidente della Repubblica Karol Nawrocki, leader del partito Diritto e Giustizia, sovrapponendo persona e personaggio, ha protestato con la produzione americana del film.

Kasia Smutniak che è abortista, a loro modo di vedere, non può dare il volto alla Madonna. Il sito della radio nazionale polacca ha riportato le parole di Pawel Ribicky, addetto stampa dell’ex presidente di estrema destra Andrzej Duda: «Non è un mistero che Smutniak abbia pubblicamente sostenuto il diritto all’aborto, criticando in più occasioni le leggi della Polonia, ritenendole un pericolo per i diritti delle donne». L’aborto in Polonia è consentito ma la legge è molto restrittiva. Le opinioni dell’attrice, per la destra cattolica, sono incompatibili con la sacralità della Vergine Maria.

Mel Gibson, che si definisce cattolico praticante, non risponde, ma nel suo entourage dicono che sulla presa di posizione politica, sempre che la condivida appieno, prevarrà la sensibilità dell’artista. I contratti con gli americani contengono clausole precise sull’obbligo di riservatezza, tutto ciò che potrebbe portare elementi turbativi va tenuto lontano: Smutniak della vicenda non parla e non può parlare. Kasia si è sempre dichiarata a favore dell’aborto. E si è spesa in prima persona con i suoi modi contrari all’idea romantica che si ha del suo Paese, un po’ spicci e rigidi, ereditati dal padre militare, disciplina e responsabilità prima di tutto. «Sono cresciuta in una bolla, vivevo in una sorta di acquario e nessuno mi ha mai letto una favola, ma forse mi ha fatto bene, perché le favole alterano la percezione della realtà». Fatto sta che presto ha dato uno strappo alle tradizioni familiari e si è ritrovata a fare la modella a Milano, Parigi, New York, cercando un equilibrio esistenziale, fino all’arrivo a Roma e dunque al cinema, però sempre accompagnata dai ricordi, dalla memoria di giochi fatti nei dorati campi di grano, in mezzo a carrarmati ridotti a ferrivecchi abbandonati.

Nel documentario Mur, nel 2021, ha esordito da regista e ha raccontato le migliaia di profughi bloccati alla frontiera tra Polonia e Bielorussia: «Ho girato col telefonino, senza troupe», aveva detto. Figlia unica di un generale dell’aeronautica militare, lui cresciuto in una casetta modesta ai confini con l’Ucraina, lei cresciuta in casermoni tutti uguali, quando il mondo era diviso in blocchi, nella trasformazione di un Paese che usciva dal comunismo aprendo la strada al sindacato Solidarnosc, in Mur, a cento metri da lei, smarrite nella nebbia e nel freddo, ha mostrato persone che rischiavano la vita nel bosco. Una distesa di alberi secolari e paludi. Tutt’intorno i cani delle guardie che abbaiano e l’indifferenza degli uomini in divisa che erano estranei al dramma. «Era un’indifferenza che percepii in modo inspiegabile, personale, fisica», disse a Sette.

Era qualcosa che nessuno vedeva e poteva vedere, perché le autorità polacche negavano l’accesso alla zona rossa; una striscia di terra militarizzata, sorvegliata con droni. Presto, in quel confine dimenticato, sorse una barriera di acciaio e filo spinato. «Il regime bielorusso spedisce afghani, iracheni, siriani, attratti con l’inganno di un visto a pagamento e di un passaggio sicuro per la libertà». Si ritrovarono in trappola, «abbandonati da tutti tranne che attivisti e volontari, respinti dalla guardia di frontiera polacca con idratanti e lacrimogeni».

28 ottobre 2025

28 ottobre 2025

Fonte Originale