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Jonathan Safran Foer: «Sono andato al seggio per votare Zohran Mamdani ma ho lasciato scheda bianca: gli slogan sono un rischio»

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Jonathan Safran Foer accoglie l’elezione di Zohran Mamdani a nuovo sindaco di New York con speranza e preoccupazione. «Speranza perché la sua vittoria significa fame di un nuovo linguaggio, morale e politico. Mamdani non è come gli altri. Parla meno da manager e più da leader di un movimento. È aria fresca, soprattutto dopo anni di discorsi tecnocratici. Preoccupazione perché con questa freschezza si porta dietro un rischio, ed è un momento pericoloso per correre rischi. A volte Mamdani è troppo frettoloso nel parlare, cade nella trappola della retorica», spiega al Corriere l’autore di Ogni cosa è illuminata (2002) ed Eccomi (2016; tutto Safran Foer è edito da Guanda).

Ha votato per lui?
«Sono andato al seggio con l’intenzione di votarlo, ma alla fine non ci sono riuscito. Ho lasciato scheda bianca. C’è una sorta di abnegazione in questo, una riluttanza a prendere posizione quando prendere posizione è ciò che la democrazia richiede. Riflette anche qualcosa di profondo: un misto di paura e scetticismo cresciuti in me negli ultimi anni. Paura di essere nuovamente sedotto dal carisma, scetticismo verso chiunque sia troppo sicuro di sé. Con Trump a destra e la cancel culture a sinistra, ho sviluppato un’allergia alla certezza, alla troppa sicurezza. Mamdani è bravissimo a generare slancio emotivo online, ma governare una città richiede qualcosa di più silenzioso e difficile: ascoltare, scendere a compromessi, procedere lentamente. Sono felice che abbia vinto le elezioni, ma è una gioia provvisoria. Tutto dipende se riuscirà a trasformare la passione in responsabilità».

Condivide il suo programma politico?
«Alcuni punti sì. La sua attenzione alle condizioni della vita quotidiana dei newyorchesi è un segno di umanità. Ci ricorda che la democrazia non riguarda solo l’identità o la moralità, ma la possibilità di condurre una vita dignitosa. Un tema che abbiamo trascurato per troppo tempo. Quello che non mi convince è come verranno messe in pratica queste teorie. Le idee da sole non bastano, gli slogan non possono sostituire la politica. A volte avverto una mancanza di concretezza nel nuovo sindaco. Una cosa è diagnosticare una malattia, un’altra è curarla senza danneggiare il paziente. Ha una visione ma non sono convinto che sappia come realizzarla».

Qual è il suo punto debole?
«Ciò che non mi convince è la sua occasionale sciatteria linguistica. Le parole non sono decorazioni del pensiero; ne sono gli strumenti. Una frase vaga può rovinare una buona idea. Lo vediamo con Trump, sebbene, ovviamente, ci troviamo davanti a un registro morale diverso. Il linguaggio plasma l’atmosfera di una società. Può invitarci alla complessità, oppure può indurre a dividersi in fazioni. Mamdani a volte ricorre alla frase altisonante a scapito di quella precisa. Ha anche la tendenza, comune tra i giovanissimi e gli idealisti, a mischiare l’intensità morale con la chiarezza morale».

Ritiene che Mamdani, musulmano, filo-palestinese, rappresenti una minaccia per la comunità ebraica newyorchese dopo gli slogan sull’«Intifada globale» e la richiesta di sanzioni e boicottaggi contro Israele?
«No, non credo che rappresenti una minaccia. Le sue posizioni su Israele non sono particolarmente radicali rispetto agli standard. Il problema non è la sostanza delle sue convinzioni, ma lo stile con cui a volte le esprime. Le sue parole possono essere imprecise e, nel clima attuale, l’imprecisione può risuonare come ostilità. Come ebreo, sono sensibile al modo in cui le parole su Israele spesso si trasformino in parole sugli ebrei. Portiamo dentro di noi un trauma generazionale che ci rende diffidenti nei confronti di personaggi pubblici che sembrano non dare peso a questo confine. La mia speranza è che Mamdani impari che le parole non si limitano a descrivere il mondo; lo creano. Se parlasse con maggiore attenzione e consapevolezza storica, potrebbe diventare un alleato piuttosto che un antagonista nei dibattiti sulla giustizia per tutti i popoli, ebrei e palestinesi compresi».

Cosa può fare Mamdani per rassicurare la comunità ebraica di New York?
«Potrebbe iniziare ascoltando, ascoltando davvero, non per rispondere ma per capire. L’ansia del popolo ebraico nei confronti dell’antisemitismo non è paranoia; è la storia che parla attraverso di noi. Le rassicurazioni di cui abbiamo bisogno non passano da dichiarazioni alla stampa o da servizi fotografici nelle sinagoghe. Passano dalla volontà di affrontare un dialogo scomodo, di riconoscere che le parole su Israele suonano diverse se pronunciate da un funzionario pubblico».

Mamdani riuscirà a realizzare il suo programma socialista — autobus gratis, affitti a prezzi calmierati, asili e materne pubbliche finanziati soprattutto con le tasse sugli ultra ricchi — in una città come New York?
«Nessuno realizza appieno la propria agenda politica a New York. Questa città è un groviglio di interessi contrastanti, ego e burocrazie. Ma è anche questa la sua anima: resiste alla purezza».

La vittoria di Mamdani è una vittoria dei giovani?
«Sì, ed è questo che mi dà più speranza. Per anni, i giovani sono stati descritti come apatici, isolati dalla vita civile. L’ascesa di Mamdani dimostra che non è vero: aspettavano solo che qualcuno parlasse il loro linguaggio di urgenza e serietà morale».

6 novembre 2025

6 novembre 2025

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