
Pioniere mezzo secolo fa della filologia musicale e oggi mito assoluto per l’interpretazione di Monteverdi, Bach e tanto altro (altrimenti non avrebbe avuto il titolo di baronetto per meriti artistici), sir John Eliot Gardiner è a Bolzano per istruire e dirigere oggi i giovani talenti della Mahler Academy. Perché si dedica così tanto ai giovani?
«Perché imparo tanto, insegnando a loro. Rispetto a trenta, quarant’anni fa, tecnicamente sono migliori, ma soprattutto hanno un’urgenza più forte di esprimersi, di dire di sé. Userei il termine affamati, e lo userei anche per il pubblico: dopo il Covid, si è come riscoperto quanto andare a un concerto sia un’esperienza che nutre il cuore e lo spirito».
Oltre alla Mahler Academy, a Bolzano ci saranno la Mahler Jugendorchester e la Euroepan Union Youth Orchestra: in tempi di Brexit, guerre, dazi e rivalità, che cosa insegna la musica?
«Che l’ascoltarsi e lo stare insieme sia più bello e più corrispondente a come siamo fatti. La Brexit è stata un disastro, e anche nei rapporti dell’Europa col resto del mondo le cose non sembrano andare bene. Però il pubblico orientale è interessatissimo alla musica occidentale: quando andiamo a suonare in Cina, Corea, Giappone c’è sempre il tutto esaurito. E i musicisti europei girano continuamente per l’Europa suscitando passione e interesse».
Lei lo sta facendo anche con la Constellation Orchestra and Choir, che ha fondato un anno fa dopo l’addio ai complessi della Monteverdi. Perché rimettersi in gioco a 82 anni, quando può dirigere le più grandi orchestre del mondo?
«Perché sento di avere ancora energia e perché volevo attorno a me dei musicisti che condividessero pienamente le mie idee sul rapporto tra le varie arti e soprattutto tra musica e natura, quella vera. Li ho portati a suonare e cantare nella mia casa di compagna, vicino a una sorgente. Sono un ecologista, ho centinaia di pecore e mucche; quando guidavo l’Opera di Lione, seguendo il tratto del Cammino di Santiago che passa dal Massiccio Centrale, ho scoperto la razza Aubrac: ne ho importate una dozzina e adesso ne ho più di duecento».
A Bolzano suonerete la seconda sinfonia di Sibelius e i Ruckert-Lieder di Mahler su strumenti d’epoca: quanto cambia il suono rispetto alle esecuzioni tradizionali?
«Diventa più trasparente, più gioioso e con più energia. L’ho sperimentato con Brahms: è il primo autore ottocentesco che ho affrontato perché è evidente il suo amore per Bach e le forme antiche; ad esempio, nella sua quarta sinfonia distribuisce le sezioni orchestrali come se volesse ricalcare la coralità veneziana dei Gabrieli, con le voci che creavano effetti stereofonici in San Marco».
Mahler e Sibelius?
«Mahler riprende l’orchestrazione di Berlioz, che adoro e che avevo fatto in Francia. Sibelius è una sfida, non l’avevo mai affrontato: non discende da Brahms, Beethoven e Bach, e ha un sentimento della natura totalmente diverso: nel Grande Nord l’uomo è davvero in lotta con le forze della natura. Ed è un omaggio a mia nonna, che era finlandese».
Qual è oggi la sua più grande soddisfazione nel fare musica?
«Bach scriveva che dove gli uomini si uniscono per suonare insieme è tangibile la Grazia di Dio: è ciò che provo e di cui sono più grato».
1 agosto 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
1 agosto 2025
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