
«I film di Jafar Panahi ci ricordano che il cinema è uno strumento di pace, parlano un linguaggio di libertà, sanno scuotere le coscienze come pochi». Un incontro tra maestri, quello tra Giuseppe Tornatore e il regista, a Roma per ricevere il premio alla carriera. «Nuovo Cinema Paradiso ci ha insegnato la sacralità dell’arte del cinema», replica Panahi che chiama sul palco la moglie per donare a lei il premio. «Oggi è il suo compleanno».
Come aveva promesso è tornato in Iran dopo la clamorosa Palma d’oro per Un semplice incidente. L’ostilità del regime iraniano che in passato lo ha incarcerato e gli ha intimato — senza successo per fortuna — di non girare film per vent’anni, si è espressa in altro modo, racconta. «Quando un artista non allineato ha successo all’estero, la prima cosa che fanno le autorità è cercare di demolire la sua credibilità, sminuire l’importanza dei premi». Dovranno darsi ancor più da fare, visto che Panahi è a un passo dall’Oscar: è stato candidato dalla Francia (che lo ha co-prodotto) nella corsa al miglior film straniero. «Sono felice di questi riconoscimenti — commenta —, ma il mio obiettivo resta girare film. Sto lavorando al prossimo, una sceneggiatura scritta tra il 2006 e il 2011, ora più attuale: parla di guerra, tratto ancora una volta un tema politico con sguardo umano».
È pronto a girarlo senza chiedere i permessi, come si è abituato a fare da quando il regime iraniano lo prese di mira, con l’arresto e il conseguente divieto di girare film per vent’anni. «È stato uno shock, ho temuto di dover smettere e poi ho trovato il mio modo di girare». Clandestinamente. Come ha continuato a fare, anche per Un semplice incidente — in sala il 6 novembre con Lucky Red — che segue le peripezie di un gruppo di persone con quello che era stato il loro carceriere e torturatore. Ha fatto scuola Panahi, diversi registi della nuova generazione hanno seguito il suo esempio. «Oggi i migliori film iraniani si girano così, clandestinamente».
È un esempio, ma non si sente un eroe. «Sono consapevole che fare il regista comporta dei rischi, fin dall’inizio mi sono sentito pronto a accettare le conseguenze. Ma di fronte ai sacrifici quotidiani del popolo iraniano non mi sembra troppo. Anche quando ero in carcere, c’erano prigionieri in condizioni ben peggiori delle mie, inaccettabili». Grazie alle battaglie del movimento «Donna vita libertà», ricorda Panahi, molte cose sono cambiate. «Per questo nel film per la prima volta mostro attrici senza velo: è la realtà, ormai, non una finzione. Gli effetti del movimento si sentono, gli iraniani sono più solidali tra di loro, anche se il regime continua a operare per dividerli. Nel mio film ho usato anche la chiave dell’ironia per far riflettere. Vorrei che chi esce dal cinema si chieda: questo circolo vizioso di violenza che genera violenza, si fermerà?»
22 ottobre 2025 ( modifica il 22 ottobre 2025 | 20:27)
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