
DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME – Di qua si vede lui in piedi e incravattato, nella war room di Tel Aviv: sulla giacca la spilla gialla degli ostaggi, sulla mappa lo sguardo concentrato, alle spalle il ministro della Difesa, Israel Katz, e i capi dell’intelligence. Di là si vedono loro sei seduti e con le camicie sbottonate, nella sala di Doha addobbata di rose e bottigliette d’acqua, di fianco un enorme quadro coloratissimo e astratto: tutt’ignari del fatto che quella riunione sta per trasformarsi in un «Vertice di Fuoco». Sono le due ultime foto, appena prima dell’inferno.
Il summit convocato per una tregua a Gaza e discutere dell’ennesima proposta americana. Il momento esatto in cui il premier israeliano Bibi Netanyahu uccide il negoziato per Gaza. E tenta, probabilmente senza riuscirci, didecapitare Hamas. A tarda mattina, i dieci caccia israeliani compaiono nel cielo come dal nulla. «Non hanno attraversato il nostro spazio», s’affretteranno a chiarire un po’ tutti, giordani e sauditi, kuwaitiani ed emiratini.
«I nostri radar non li hanno rilevati», assicureranno da Doha. Buio anche per noi, fanno sapere dalle portaerei americane nel Golfo. Molti si sono voltati dall’altra parte: dalla Casa Bianca ammettono d’essere stati informati del raid qualche ora prima, Bibi la rivendica come un’«operazione del tutto indipendente di cui ci assumiamo ogni responsabilità», una fonte tira in ballo anche i qatarini («sapevano») e li costringe a smentire.
È un attacco mai visto e «codardo», protesta l’emiro e con lui tutto il mondo arabo e l’Onu e la maggior parte dei Paesi europei: «Una flagrante violazione di qualsiasi legge internazionale», dice il Qatar, stordito dallo schiaffo a un alleato dell’America, a uno dei più grandi produttori mondiali di petrolio, al Paese che più collaborava con l’Egitto per trovare un accordo nella Striscia.
L’azione dura pochissimo. La pattuglia utilizza «munizioni di precisione e intelligence aggiuntiva», fa sapere, ma forse la precisione non è quella d’un anno fa a Teheran, nell’eliminazione d’Ismail Haniyeh. Nel mirino, stavolta c’è «la leadership direttamente responsabile del 7 ottobre e che orchestra la guerra contro Israele». Una dozzina d’esplosioni nel quartiere di Al Qatara, un’area di Doha senza troppi palazzi. Sei morti, più un agente della sicurezza. Gli aerei colpiscono due abitazioni e ammazzano di sicuro il figlio di Khalil Al Hayya, «ministro» in esilio per Gaza, assieme al capostaff Jihad Labad.
Nell’ultima foto della delegazione non compare Khaled Meshaal, la guida di Hamas all’estero: forse se l’è cavata, lui come gli altri pesci più grossi, l’amico degli iraniani Zeher Jabarin e il capo del parlamento, Muhammad Darwish. Il fumo, la polvere, le urla, i video concitati dei telefonini, il primo commento: «Ci hanno attirato nella trappola dei colloqui, per colpirci».
L’obbiettivo principale erano di sicuro Hayya e Jabarin, gli strateghi della mediazione: i più duri e intransigenti, spesso in contrasto col comandante sul campo Izz Al Haddad, criticati anche dai gazawi per la loro vita dorata in Qatar e per l’apparente, totale disprezzo per le condizioni disastrose dei palestinesi.
Il target, spiegano dall’Idf, sarebbe arrivare a trattative proprio con Haddad: «Un’operazione simile a quella del 1982 in Libano, un bombardamento che allora fece di Yasser Arafat l’unico interlocutore». «È uno sfortunato incidente – minimizza Donald Trump, prima d’accordo e poi un po’ meno — che si spera possa rappresentare un’opportunità per la pace».
Stop. La mediazione di Doha finisce qui, il tavolo non c’è più. I vertici di Hamas sono atterriti, ora che la guerra di Gaza viene esportata anche nel Golfo.
«Abbiamo deciso lunedì — spiega Netanyahu —, dopo l’attentato al bus di Gerusalemme e l’uccisione di quattro soldati a Gaza». I più preoccupati della scelta sono i familiari degli ostaggi, ovviamente: «La prospettiva del loro ritorno ora è più incerta che mai, con una cosa assolutamente certa: il loro tempo sta per scadere». «Tremo di paura — dice Einav Tsengauker, padre del rapito Matan —. È possibile che il premier abbia assassinato mio figlio».
La disperazione delle famiglie israeliane non è quella dei gazawi. Perché nella Striscia, ormai, s’è oltre ogni scintilla di speranza. La gente di Gaza City ha cominciato l’evacuazione totale, come ordinato ieri mattina da Netanyahu. Comincia la caccia dell’Idf casa per casa, ostaggio per ostaggio. E tutti devono spostarsi a Sud, nelle «zone umanitarie» allestite dagli israeliani. Un milione di palestinesi. Chi non ce la fa, ferito o affamato, cerca un’auto o un furgone: il passaggio costa mille dollari, però, e pagare non si può. Qualche medico s’oppone, l’ospedale Shifa resta aperto, anche perché i malati sono spesso intrasportabili. I campi profughi, poi, sono strapieni e anche volendo non si trova più posto. Le bombe per qualche ora cadono sul Qatar. Alle folle che camminano piano, giù giù lungo la Striscia, è garantito un lasciapassare. Dal cielo, piove una pioggia di volantini e qualcuno ha perfino voglia di leggerli: Hamas vuole impedirti d’andare via! Segnala le sue minacce e i suoi posti di blocco!». C’è anche un numero da chiamare, 0529625830: ma chi ce l’ha più, un telefono?
9 settembre 2025 ( modifica il 9 settembre 2025 | 23:29)
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