
«Lo sport è il mio equilibrio, mi dà il momento in cui restare da solo e riflettere. È anche una forma di cura, di centratura… Alcuni sport che faccio non prevedono errori. Ho preso onde di quattro metri alle Mauritius o in Madagascar e, se sbagli lì, il primo punto di soccorso è a duecento chilometri. In discesa, dopo una scalata, ci sono centinaia di passi potenzialmente fatali. Certo, ci pensi. Adesso, poi, ho famiglia ci penso due volte, però sei sempre in bilico tra vivere e non vivere… La vita va vissuta. Ho più paura di perdere un minuto di vita, piuttosto che di prendere dei rischi calcolati. Vivo di emozioni e mi emoziona vivere, faccio fatica a rinunciarci». La voce è di Inti Ligabue. Veneziano, 44 anni, è presidente di Ligabue spa; da tredici anni, guida l’azienda ultracentenaria che il padre, Giancarlo, ereditò dal fondatore, Anacleto. «Vogliamo migliorare la vita di chi vive, lavora o viaggia nelle attività che serviamo – spiega Inti -, siano essi traghetti, campi energetici, navi da crociera o commerciali, attraverso servizi che sono alberghieri, di manutenzione, logistica o turismo». Ligabue è in 14 Paesi, oltre ottomila dipendenti di 52 nazionalità e 18 religioni diverse, 460 milioni di fatturato. A Giancarlo, esploratore e paleontologo, è intitolato il Museo di storia naturale di Venezia, che conserva uno scheletro di dinosauro scoperto nel deserto del Ténéré, donato all’istituto. «Conoscere e far conoscere» è il motto di Fondazione Giancarlo Ligabue, fondata da Inti nel 2016, un anno dopo la morte del papà: mostre, conferenze, laboratori, decine di eventi legati dal convincimento che «cultura e sapere siano fonte di tolleranza e rispetto tra popoli». Oggi, però, l’imprenditore racconta una parte di sé meno nota, al netto di incredibili foto sui social. Kitesurf, surf, arrampicata, sci alpinismo, immersioni e, ultimi, triathlon/Iron men: sport, nelle forme dell’estremo.
Com’è Inti Ligabue, imprenditore e sportivo?
«È un uomo di impresa dinamico, che vive la giornata e la settimana sempre in modo attivo. Passo per le varie dinamiche di strategia che l’azienda richiede e, a un certo punto della giornata, devo vivere con movimento: è il mio equilibrio che lo chiede. La mia giornata è fatta dell’azienda e di fondazione. C’è un’anima imprenditoriale e una culturale e poi ce n’è una terza quasi come l’anima aristotelica, che è tripartita: quella sportiva».
Percentuali alle tre?
«Direi un 60% azienda, 20% fondazione e 20% sport, con diverse intensità».
Racconti l’anima sportiva e come essa aiuti le altre due.
«Il percorso sportivo non è stato sistematico. Non sono stato il bambino mandato a fare tennis o rugby per diventare agonista. Ero sempre attratto dal movimento, ma in forme meno convenzionali. Mi piacevano gli sport aquatici, vivendo qui in laguna: windsurf e wakeboard, solitari e non di squadra, che mi hanno aiutato e mi aiutano tutt’ora. Lo sport è il mio equilibrio, accanto alla famiglia chiaramente».
L’adrenalina non è tutto…
«La medicina si sta spostando sempre più dal curare al prevenire. I testi di longevità spiegano che lo stare bene è per 93% stile di vita ed epigenetica per il 7%. Lo stile di vita è dato da sonno, stress, mente, alimentazione ed esercizio fisico. Lo sport allevia la mente, e hai già “coperto” due della lista. L’esercizio genera serotonina, che è come mangiare una barretta di cioccolato, per cui sei felice. Lo dico scherzando, ma guardo con sospetto chi non pratica sport. Poi ci sono vari livelli d’intensità e troppo sport può anche far male, ma resta fondamentale».
I suoi sport sono «avventurosi»: eredità paterna?
«È il 7% di genetica. Scherzi a parte, c’è chiaramente un’eredità. Ho avuto la fortuna di viaggiare con lui nelle sue ultime dieci spedizioni, fra i 7 e i 12 anni. Il viaggio è stato un’osmosi e, anche negli sport, ho scelto quelli che mi fanno viaggiare, in cui esplori. Ho cominciato dalla laguna di Venezia, primo campo di allenamento col kite, sport che più mi rappresenta. Lo pratico da vent’anni, da quando uscì ed era considerato estremo e pericoloso, perché le attrezzature erano pericolose. Oggi è per tutti, perché le attrezzature perdonano molto. Ho avuto la fortuna di viaggiare e imparare con leggende come Ruben Lenten e Aaron Hadlow, che hanno inventato questo sport e hanno più o meno la mia età. Con loro abbiamo navigato in favore di vento per centinaia di chilometri. In Namibia, da Lüderitz a Skeleton bay, in Marocco, da Dakhla alla Mauritania, la costa brasiliana da Fortaleza fino al Rio delle Amazzoni, zaino in spalla, tenda, dieci amici e il vento a favore».
Poi la montagna…
«L’arrampicata è un altro momento in cui sei lì, sei presente, non puoi sbagliare. Senza andare lontano, ho scalato l’Antelao, sulle Dolomiti, pericoloso e affascinante, le Tre Cime di Lavaredo,la Tofana di Rozes o palestre di roccia iconiche come la torre Aguglia di Goloritzé. Ho avuto la fortuna di scalarla con Manolo (Maurizio Zanolla, feltrino, pioniere e mito del free climbing, ndr) e un amico, Antonio Betella, padovano di Cortina. È un molite di 160 metri sul mare sardo, che Manolo battezza negli anni Ottanta, aprendo la via che si chiama “Sinfonia dei mulini a vento”. Per me è stato epico. Qui cerchi la solitudine, il silenzio verticale. Montagna e mare, diversi ma simili nella maestosa potenza naturale…».
Torni imprenditore: per la malattia di papà, ha dovuto guidare l’azienda in età non consueta, almeno in Italia, con scelte decisive per il rilancio da un momento di crisi: cosa prova ripensandoci?
«Mi ritengo un privilegiato e sono grato alla vita, a chi mi sta vicino e alla città per come ha saputo omaggiare la mia famiglia, mio padre, intitolandogli il Museo di storia naturale. Dall’altra parte, la vita non mi ha risparmiato qualche colpo basso. Ho perso mia madre da giovanissimo, io e mio padre avevamo cinquant’anni di differenza. Entro in azienda a 24 anni e lui stava uscendo, a causa di una malattia. Un passaggio generazionale complessissimo, che ha portato l’azienda a invilupparsi in anni di perdita e difficoltà. Per età ed esperienza non ero pronto a capire in anticipo determinate logiche. Gli errori ci sono stati ma, negli anni, ho imparato a leggere e capire l’azienda. E che sudore, fatica e comprensione nel dettaglio di certe dinamiche ti danno la forza della decisione. Se c’è una cosa che non voglio fare è non prendere decisioni. Einstein dice che è follia pensare di cambiare qualcosa mantenendo lo status quo. Ricordo, quindi, momenti di grande affanno in cui cercavo lucidità; mettere in fila le cose e cercare soluzioni, per superare la sensazione d’annegamento nei problemi».
Prossima avventura?
«A maggio 2026, con amici. Affrontiamo un seimila nell’Himalaya: il Lobuche».
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6 agosto 2025
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