
«Il tuo principale nemico, sono i tuoi amici». Ho sentito ripetere questa frase da autorevoli esperti americani del Medio Oriente. Riferita a due protagonisti assai diversi: Khamenei, e Trump. L’ayatollah che è la guida suprema della Rivoluzione islamica, più di Israele o dell’America deve temere il suo popolo: il regime ha tradito tutte le sue promesse (anche quella della sicurezza interna dalle aggressioni) e prima o poi dovrà pagare un prezzo.
Riferito a Trump: il nemico interno si annida anche nel Pentagono o nell’intelligence, vista la velocità con cui qualche «gola profonda» ha messo in giro stime sugli effetti dei bombardamenti in Iran che smontano o addirittura ridicolizzano il trionfalismo del presidente. Oppure, in un’altra versione, il «nemico interno» è il suo alleato Benjamin Netanyahu, che ha confermato ancora una volta di poter condizionare e perfino dirottare la politica americana.
Vi riassumo qui una serie di valutazioni che ho raccolto in particolare fra generali americani, diplomatici, studiosi di Medio Oriente (alcuni dei quali di origine iraniana), in una serie di seminari del Middle East Institute di Washington, un think tank che esiste dal 1946, il più antico centro studi che in America è specializzato in modo esclusivo su quest’area del mondo. Potete consultare l’elenco completo degli esperti, militari inclusi, e la trascrizione integrale delle loro testimonianze andando sul sito www.mei.edu Riassumo i punti salienti.
La tregua Israele-Iran è solo questo e nulla di più: è un cessate-il-fuoco molto temporaneo in cui ciascuno si prepara alla prossima fase della guerra.
Il livello di distruzione degli impianti nucleari ottenuto dagli attacchi di Israele e Stati Uniti è ancora in larga parte ignoto e lo rimarrà per qualche tempo. In ogni caso è improbabile che abbia messo la parola fine al programma nucleare iraniano; a meno che sia lo stesso Iran a deciderlo in una sede negoziale. Comunque il fatto che siano circolate subito, in America, delle stime minimaliste sull’impatto dei bombardamenti (forse premature, certamente affrettate) sta a indicare che Trump malgrado le tante nomine di fedelissimi è ancora circondato di nemici, nelle sue forze armate e/o nell’intelligence. Contropoteri o Deep State, ciascuno può usare la definizione che predilige, sta di fatto che alcuni remano contro la sua politica estera, dall’interno.
Per adesso la propaganda di Teheran è concentrata su questo messaggio: abbiamo resistito ad attacchi formidabili di Israele e dell’America, siamo ancora in piedi, quindi abbiamo vinto noi. Nell’immediato è un’affermazione che si giustifica alla luce dei proclami (contraddittori) venuti da Tel Aviv e da Washington sul rovesciamento del regime. Nel medio-lungo periodo non è detto che questo possa frenare la caduta di legittimità di un regime che sembra interessato assai più alla propria sopravvivenza, che non a proteggere il popolo persiano da ogni sorta di sofferenze (ai disagi economici aggravati dalla corruzione, alla repressione e agli abusi contro i diritti umani, ora si aggiungono i missili su Teheran).
Finché il regime sopravvive e questa sua sopravvivenza appare come una sorta di vittoria, è altamente improbabile che accetti di negoziare alle condizioni poste da Trump: abbandono totale del programma nucleare. Vista da Teheran questa richiesta equivale ad una capitolazione. Un’ala dura del regime sciita accusa addirittura Khamenei di aver esercitato un’eccessiva cautela in passato, l’argomento dei falchi è: «Se avessimo già avuto la Bomba, non saremmo a questo punto».
Appena 40 giorni fa, dal 13 al 16 maggio Trump aveva fatto una visita nel Golfo, con tappe in Arabia saudita, Qatar, Emirati. Aveva snobbato Netanyahu, evitando di aggiungere Tel Aviv a quel tour che inaugurava la politica estera del 47esimo presidente. L’asse con le potenze arabe sunnite del Golfo sembrava dominare la politica mediorientale di questa Amministrazione; all’insegna degli interessi economici. Non a caso subito dopo Trump aveva lanciato il negoziato con l’Iran, assecondando le preferenze del principe saudita Mohammed bin Salman (MbS).
Con il suo attacco all’Iran, Netanyahu ha ripreso il sopravvento e ha costretto Trump ad allinearsi nuovamente con lui. La capacità di condizionamento israeliano sulle scelte degli Stati Uniti prevale di gran lunga sul reciproco. Agli occhi di molti leader mediorientali, in quell’area oggi è Netanyahu «l’alpha-maschio» dominante, mentre Trump finisce per accodarsi.
Dopo aver subito la più grave disfatta della sua storia il 7 ottobre 2023, con le sue reazioni successive Israele si è imposto indiscutibilmente come la potenza egemone di tutto il Medio Oriente. Ha staccato dalla sfera d’influenza dell’Iran due Stati importanti, Libano e Siria. Cosa farà di questa egemonia resta da vedere. L’America ebbe la sua fase egemonica, in un mondo unipolare, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989; non seppe farne un uso abbastanza positivo da prolungarne la durata e l’11 settembre 2001 già quella fase si poteva considerare esaurita.
Le potenze arabe sunnite e conservatrici, nel Golfo e dintorni, fin qui hanno ricavato dei benefici dalle loro politiche di disgelo diplomatico con l’Iran, in quanto sono state per lo più risparmiate dalle ritorsioni e rappresaglie. Al tempo stesso è stata ribadita la loro dipendenza militare dalla protezione degli Stati Uniti.
C’è una lezione che riguarda anche il versante europeo della Nato. Di fronte all’imprevedibilità americana bisogna spendere di più per difendersi; inoltre bisogna spendere in modo più efficiente, aumentando il coordinamento, la cooperazione e l’integrazione fra alleati.
Il triplice effetto delle azioni intraprese da Iran (soprattutto con l’appoggio alla strage di Hamas il 7 ottobre 2023), Israele, Stati Uniti, è quello di avere azzerato i livelli di fiducia di tutti verso tutti. Il Medio Oriente è entrato in un periodo storico «alla Thomas Hobbes», dominato dai rapporti di forze.
Questo vale anche per la questione delle armi nucleari. L’epoca dei trattati di non-proliferazione, assortiti da regimi di ispezioni internazionali, era già obsoleta da tempo. Siamo entrati in un’era dove la non-proliferazione nucleare viene perseguita non attraverso negoziati che sfociano in trattati, bensì attraverso il lavoro dell’intelligence, la scoperta di piani clandestini, l’intervento militare per distruggere o bloccare l’accesso all’atomica.
25 giugno 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
25 giugno 2025
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