
L’editore britannico di Gore Vidal ha raccolto le sue interviste più belle (scartandone una montagna per ragioni di spazio: ci sarebbe voluta una Pléiade per contenerle tutte) in un bel volume intitolato I Told You So, ve l’avevo detto. Dotato di moltissime virtù ma non della modestia, amava più di ogni altra cosa aver ragione. Al punto di gioire quando il nemico storico Norman Mailer lo colpì con un cazzotto perché, ghignò Vidal massaggiandosi la mandibola, «ancora una volta Mailer non riesce a trovare le parole» (negli anni del crepuscolo i due maestri diventarono amici perché, in realtà, si erano sempre molto stimati a vicenda).
Diceva: «Ogni volta che un amico ha successo una piccola parte di me muore», e il modo in cui l’America ricorda — cioè: non ricorda — il suo centenario l’avrebbe fatto sorridere (con bonus della celebre alzata di sopracciglio) perché fu proprio lui a ribattezzare gli Stati Uniti d’America «Stati Uniti d’Amnesia».
Eugene L. Vidal — scelse Gore come nome d’arte in omaggio al nonno senatore — nacque il 3 ottobre 1925 all’accademia di West Point e trovatosi subito dopo la guerra davanti a un bivio, politica o letteratura, scelse quest’ultima. Togliendo al suo Paese un senatore indubbiamente capace di discorsi memorabili ma regalandole al suo posto il più grande biografo. Perché al netto di una bibliografia vastissima tra narrativa, teatro, saggistica, lui considerava proprio i romanzi storici il cuore del suo lavoro.
L’eptalogia delle Narratives of Empire cominciata nel 1967 e conclusa nel 2000 che racconta la nascita degli Stati Uniti, dal 1775 fino al 1954, sette libri che riuscirono tutti a diventare bestseller in America (in un mercato editoriale molto diverso dall’attuale), uno dei quali, Lincoln, del 1984, si tramutò in un caso letterario nazionale commentato anche dall’allora presidente Ronald Reagan.
Quello dei romanzi storici è il Vidal della copertina di «Time» del 1976, bicentenario dell’America nel quale pubblicò 1876 e la rivista titolò giustamente I peccati dei padri, perché ai padri della patria che ammirava Vidal non fece mai sconti. Non fece mai a nessuno, per primo a sé stesso, progressista strutturale fatto per non andare d’accordo con nessuno: isolazionista ai tempi di Franklin Delano Roosevelt, inorridito dalle scelte di Harry S. Truman nel dopoguerra tra le quali la fondazione dell’agenzia da lui ribattezzata «l’incostituzionale Cia», apertamente gay negli anni Quaranta quando significava l’ostracismo da moltissimi salotti buoni («New York Times» compreso) e dal mondo politico, pacifista e anti-imperiale, grande odiatore del mondo accademico che disprezzava (ricambiato), capace di litigare con quasi tutti, anche coloro con i quali andava sostanzialmente d’accordo. Era un uomo di contraddizioni: eloquente e veemente difensore dei neri, delle donne, delle vittime di discriminazione, definiva però senza battere ciglio «merce» i giovanotti che ingaggiava per fugaci incontri (il sessantennale rapporto con il compagno Howard Austen era però platonico).
Giocava con l’immagine fiera di gelido hidalgo ma quando morì l’amico Italo Calvino prese la sua foto e la sistemò in un posto d’onore sul tavolino del salotto della Rondinaia, a Ravello, insieme con quella del padre, e degli amatissimi nonni: riteneva Calvino il più grande di tutti i suoi contemporanei.
L’università di Harvard alla quale ha lasciato la sua eredità milionaria e l’archivio preziosissimo e che al 2024 sta seduta su un tesoro di donazioni di 53,2 miliardi di dollari (45,2 miliardi di euro) obiettivamente non s’è sprecata: ha appena dato il via a un ciclo di film ai quali Vidal collaborò come sceneggiatore o consulente (il cinema, che amava moltissimo, fu però da lui considerato sempre la parte meno importante della sua opera). Nell’atrio del cinema verranno esposti alcuni cimeli tratti dall’archivio, ma soltanto copie «per motivi di sicurezza» (informazioni a harvardfilmarchive.org/programs/gore-vidal-goes-to-the-movies).
Pochino davvero perché al netto del valore storico dell’archivio (Vidal scrisse e ricevette lettere da buona parte dei giganti del Novecento, da Thomas Mann a Leonard Bernstein, da Rudolf Nureyev allo stesso Italo Calvino) l’università ha incassato un assegno molto probabilmente superiore ai venti milioni di dollari.
Il nipote di Vidal, Andrew Auchincloss (figlio di Louis, il «cugino Louis» scrittore che Vidal ammirava enormemente e come lui dall’America è stato dimenticato) ha spiegato al «Corriere» che «Harvard non farà molto per mantenere viva l’eredità di Gore, ma sono fiducioso che il suo ruolo, unico, nella letteratura e nella politica del XX secolo manterrà alta l’attenzione degli studiosi per molti anni a venire».
Certo i suoi libri restano in stampa, negli Usa, ma più sulla forza della fama e del passaparola tra lettori ancora una volta più avanti dell’accademia.
Meglio, e a Vidal avrebbe fatto piacere, il ricordo che arriva fuori dall’America: l’editore britannico ha commissionato a Jay Parini, scrittore di classe, biografo e amico di Vidal, quattro nuove prefazioni per quattro edizioni «del centenario» in uscita il 3 ottobre, tra le quali un Palinsesto (strabiliante primo volume delle memorie) con in copertina una foto di Vidal al massimo del carisma e della bellezza (era un uomo vanitoso, nulla di male a ricordarlo: compiuti i 50 anni, annualmente si sottoponeva a una dieta ferrea e altri trattamenti alla spa La Costa nei pressi di San Diego).
Meglio di tutti, ed è la cosa che gli farebbe più piacere, fa l’Italia: l’editore storico di Vidal, Fazi, pubblica nella collana Le strade due nuove traduzioni di due titoli della serie Narratives of Empire, due libri chiave dell’eptalogia: Hollywood (traduzione di Adriana dell’Orto) e Washington DC (traduzione di Daniela Paladini). «Garanti» dell’iniziativa, con buona pace degli editori americani, Gabriel García Márquez («I romanzi storici di Gore Vidal sono magnifici») e Harold Bloom («Vidal è il maestro del romanzo storico americano… La sua visione della politica americana, passata e presente, è talmente potente da destare ammirazione»).
Ravello, dove viveva per sei mesi l’anno, e che adorava («Gli altri sei mesi li passo sulle colline di Hollywood quindi possiamo dire che non vivo mai in America») lo omaggerà nel giorno del compleanno con una cerimonia a Villa Rufolo e il Premio Gore Vidal.
E magari qualcuno, quella sera, citerà uno dei famosi bon mot del maestro, più che una battuta una profezia: «Se c’è una buca sulla strada dirò sempre, con cattiveria e un senso di oltraggio, che c’è una buca sulla strada. E che se non la riempi, finirai per sfasciare la tua auto. Essere d’aiuto non ci rende più amati, no».
Più di ogni altra cosa, ripeteva spesso, anche in un’intervista con il «Corriere della Sera» di tanti anni fa, Vidal avrebbe voluto essere presente alla nascita degli Stati Uniti, «invece mi è toccato in sorte di essere testimone della loro morte», facendosi per una volta serio, il bel profilo da moneta romana. Nei terribili ultimi anni della malattia e della solitudine dopo la scomparsa di Howard, non leggeva quasi più i contemporanei ma rileggeva Montaigne e gli amati classici greci e latini. Come si addice — parole di Omero — a «uno degli immortali, che posseggono il cielo infinito».
26 settembre 2025 (modifica il 26 settembre 2025 | 21:34)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
26 settembre 2025 (modifica il 26 settembre 2025 | 21:34)
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