
DALLA NOSTRA INVIATA
Kfar Saba – Il microfono amplifica i singhiozzi che giungono alla folla come grida profonde. Arrivano in fondo al viale. Salgono fino ai balconi degli ultimi piani, palchetti privilegiati del dolore di una madre che si chiede: «Come si
fa l’elogio funebre di un figlio?». I pullman sono parcheggiati lungo tutto il perimetro del cimitero militare di Kfar Saba, trenta minuti a nord-est di Tel Aviv. La città non ha mai visto così tanta gente e bandiere israeliane invadere le strade, che non conoscono questo traffico. Migliaia di persone
da tutto il Paese sono venute a dire addio a Tamir Nimrodi, il soldato che a 18 anni è stato rapito il 7 ottobre 2023 da Hamas e il cui corpo ha appena
fatto ritorno habaita, a casa.
In piedi, tra una distesa di tombe di caduti di guerra, si prova a dare un senso a ciò che rimane. A chiudere cerchi diventati spirali, in un funerale che si trasforma in un rito catartico collettivo. Adagiato nella terra — «da polvere sei stato creato e in polvere ritornerai» — , c’è quello che resta
del corpo di Tamir che per 741 giorni è stato nascosto in qualche tunnel a trenta metri sotto Gaza.
Sulle teste kippah nere. Kippah colorate e fatte a mano. Sulle spalle, i fucili che pendono come borse. «Quante volte ho pensato al momento in cui ti avrei rivisto, figlio mio. Immaginavo cosa ti avrei detto, come ci saremmo abbracciati», dice la madre Herut. Ad ascoltare l’addio a Tamir ci sono gli
amici del liceo e quelli dell’unità, ma anche tanti coetanei sconosciuti, i figli della generazione 7 ottobre, venuti qui a vedere quello che sarebbe potuto succedere a loro. Hanno i visi rigati dalle lacrime che cadono silenziose. Fuori, fumano nervosi le sigarette elettroniche: «Non so se ci riprenderemo», dicono mentre rimbomba la voce di Herut. «Sei qui. Sei tornato. Oggi sono più vicino a te. Ma non c’è abbraccio, non c’è conforto. Come si riassumono 18 anni insieme e due di nostalgia?».
Tamir, da solo nove mesi soldato, è stato rapito dalla base vicino al valico di Erez e la sua morte è stata confermata solo due giorni fa. Il corpo è stato restituito martedì insieme a quelli di Eitan Levy e Uriel Baruch. Hamas ha
consegnato anche una quarta salma, che si è scoperto non appartenere a nessuno degli ostaggi. Dal forum delle famiglie dicono che è stato «ucciso
dai bombardamenti dell’esercito israeliano, mentre era prigioniero». Il portavoce militare non conferma. «Se non riportano a casa tutti, la guerra
non è finita», commenta con rabbia una ragazza in divisa e basco rosso. Invece Alon Nimrodi, padre di Tamir, quando prende la parola spiega che
«in un certo senso, mi sento sollevato, perché ora abbiamo la certezza. Nostro figlio è tornato da noi, anche se in questa bara». Per loro il viaggio si è concluso «in modo terribile, ma non smetteremo di lottare per il rilascio degli altri 19 ostaggi». Non trattiene le lacrime quando ripensa alla vita
di prima. Quando «Tamir e la sorella ridevano in camera e io urlavo di abbassare la voce. Ora vorrei solo sentirlo ridere. Ridi più forte che puoi, ridi
ancora».
Il ragazzo non sognava di fare carriera nell’esercito. «Non era un combattente, soffriva anche d’ansia», racconta la famiglia. Aveva appena finito il liceo e come la maggioranza dei giovani israeliani prestava servizio militare, che per gli uomini dura due anni e otto mesi e per le donne due anni. «Era dolce. In caserma, sopra il letto, aveva un biglietto che diceva: “Aiuta quante più persone possibile, e non fare del male a nessuno”».
Parte l’inno nazionale, l’Hatikvah. Chi è in uniforme porta la mano destra alla fronte. Si sparano in aria quattro colpi di fucile, è un saluto militare. Una donna vicino a noi si copre le orecchie: «Il mio cuore non regge più questi rumori». Le lapidi tutt’intorno hanno scritte in ebraico, fotografie, sciarpe di squadre di calcio e sassi. Sassi grigi e sassi colorati. «I fiori appassiscono mentre i sassi sono per sempre», spiega un ragazzo che ne sta appoggiando uno sulla tomba di un amico soldato, ucciso il 7 ottobre.
17 ottobre 2025
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