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«Il nome della Rosa», un successo: un Medioevo visionario

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MILANO Per molti di quelli che hanno conosciuto o letto Umberto Eco e ieri sera erano alla Scala alla prima mondiale de «Il nome della rosa», l’opera è stata tre ore di tonfo al cuore: fedeltà al testo e alta qualità senza concessioni al pop, con tutto quello che ciò comporta.

Musica e libretto di Francesco Filidei, direzione di Ingo Metzmacher, regia di Damiano Michieletto, orchestra, coro e voci bianche del Teatro alla Scala, testo in italiano con citazioni in latino (anche troppe, percentualmente al romanzo), greco, ebraico, tedesco e francese e lunghi elenchi, passione che Eco aveva preso da Borges.

Siamo come in un nero teatro anatomico. Dall’alto si affacciano i monaci che pregano (in realtà leggono il romanzo) su una doppia fila di stalli mentre sul palco si svolgono i 7 giorni della narrazione, 7 come le trombe dell’Apocalisse divisi in 24 scene, ciascuna delle quali caratterizzata da un elemento simbolico come «installazioni, una serie di pannelli ognuno di colore diverso», dichiara Filidei.

L’opera segue il romanzo: in una abbazia medievale avvengono morti sospette sulle quali indaga Guglielmo da Baskerville con il novizio Adso scoprendo che sono dovute a un libro vietato custodito in biblioteca (l’inesistente secondo libro sul riso della «Poetica» di Aristotele) con pagine avvelenate.

Ma oltre il thriller ci sono tutti gli strati del romanzo: la femmina tentatrice (con lunga scena onirica), il bestiario che esce dai codici miniati ed entra in scena, la disputa sulla povertà di Cristo tra gli azzurri francescani e i rossi domenicani con l’inquisitore Bernardo Gui (Daniela Barcellona en travesti), l’eresia dulciniana, la proiezione semiologica del secondo livello del romanzo che si dipana tra giochi linguistici e specchi riflettenti.

Alcune scene sono di perentoria efficacia: poco dopo l’ingresso di Adso da Melk (Kate Lindsey en travesti) e Guglielmo da Baskerville (Lucas Meachem) un altorilievo rielaborato del portale di Moissac si sgretola ed escono tersicorei in un sabba apocalittico.

Da anatomisti le teche con i cadaveri dei monaci mentre la Madonna da van Eyck ha Adso al posto del Salvatore. La luce del velario, sagomata come eptagono che riproduce la pianta della biblioteca, è sempre fredda, salvo nell’incendio finale dell’abbazia, e ciò la rende anni Settanta, che sono quelli nei quali maturò il romanzo (Bompiani nel 1980).

Presenti la famiglia Eco, compositori come Salvatore Sciarrino, Fabio Vacchi, Luca Francesconi e Silvia Colasanti, direttori di teatro, il direttore di Rai Cultura Fabio Zappi, quello del Piccolo, Lanfranco Li Cauli, e quella del Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah.

Stefano Eco è soddisfatto, trova l’opera «armonica» e lo è anche Mario Andreose, che fu agente di Eco e direttore Bompiani: «Scelta attendibilissima di musicista e regista». Molti apprezzano che Filidei non abbia ceduto al fumettone, alcuni, però, lamentano un po’ «poca musica».

In effetti, commenta un esperto, tra la riduzione cinematografica di Jean-Jacques Annaud e l’opera lirica di Filidei, al netto delle 5 recite tutte esaurite c’è in mezzo spazio anche per un musical stile Broadway.

Le nom de la rose andrà in scena nel ‘28 in francese e in una versione «più elettronica» all’Opéra Bastille. Filidei merita di entrare nel cartellone dei grandi teatri, ma non è certo, sebbene ieri fossero presenti numerosi direttori come quelli dell’Oper Koeln, del Theater an der Wien, della Staatsoper di Vienna, del Dutch National Opera oltre all’ex sovrintendente della Scala, Dominique Meyer, che commissionò l’opera.

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27 aprile 2025

27 aprile 2025

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