In molte aree costali africane i pescatori delle comunità locali fanno sempre più fatica a riempire le reti di pesce. I grandi pescherecci delle compagnie occidentali arrivano a saccheggiare il mare fin quasi sulle coste, facendo man bassa di pesci anche di piccole dimensioni che vengono avviati alla filiera della mangimistica, sottraendoli alle popolazioni che ne avrebbero bisogno per la propria sussistenza. Lo racconta anche David Attenborough nel suo ultimo film, «Ocean», spiegando come funziona e quando sia devastante questa nuova forma di colonizzazione. Ma oltre al danno per questi pescatori c’è anche la beffa: sempre più spesso le reti scarseggiano di prodotti ittici, ma sono colme di stracci derivanti da capi di abbigliamento dismessi in Europa e nel Regno Unito, che finiscono sempre più in discariche a cielo aperto e di lì in mare.
È ciò che accade ad esempio nei dintorni di Accra, dove un’inchiesta condotta da Greenpeace Africa e dall’unità investigativa Unearthed ha documentato come montagne di abiti usati svettino anche in una zona umida nei pressi capitale del Ghana, riconosciuta come d’importanza internazionale dalla Convenzione di Ramsar. È, tra l’altro, l’habitat naturale di tre specie di tartarughe marine, che rischiano di essere soffocate dagli scarti tessili che a volte finiscono con l’ingoiare. Ma il problema riguarda anche lo scorrimento delle acque di scolo superficiali e l’occupazione delle spiagge, che vengono sottratte alle attività umane.
In Ghana arrivano ogni settimana 15 milioni di indumenti usati, secondo le stime di Greenpeace, inviati perlopiù dai Paesi europei. Ma solo una parte è in condizioni accettabili e quindi riutilizzabile. Tutto il resto diventa rifiuto. E i rifiuti diventano discariche. Il problema riguarda anche altri Paesi dove l’impatto del consumismo occidentale si fa sentire pesantemente, impattando sugli ecosistemi e sull’economia. Angola, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, b e anche la (a noi) vicina Tunisia. Secondo il rapporto «Draped in Injustice», rilanciato oggi da Greenpeace Italia a sostegno della propria petizione finalizzata a fermare la degenerazione del fast fashion, le nazioni africane hanno accolto il 46% del tessile usato proveniente dall’Unione Europea. I Paesi citati hanno importato complessivamente, nel 2022, circa 900 milioni di capi di seconda mano.

Come tutte le discariche non controllate, anche quelle formate dai cumuli di vestiti finiscono col diventare ricettacoli di infezioni. Le popolazioni esasperate a volte provano a dare fuoco a queste colline tessili, finendo però con l’inquinare l’aria e l’ambiente. Il materiale con cui sono prodotti questi abiti di scarto non è quasi mai di buona qualità. Il fast fashion è fatto per essere appunto fast, veloce, deve durare poco e generare ricambio continuo. Per cui i capi devono essere a basso costo, almeno per i parametri occidentali. E per questo sono realizzati con fibre che contengono alte percentuali di materie plastiche e di derivazione fossile. Vengono inoltre trattati con sostanze chimiche in fase di colorazione, molte delle quali riconosciute tossiche anche per le persone che le indossano. Quando questi tessuti si decompongono rilasciano nell’ambiente tutta quella chimica e quella plastica, che vanno ad inquinare l’aria, i suoli e le acque. E che finiscono con l’avvelenare la fauna. E con il compromettere la capacità degli oceani di assorbire il carbonio e porre argini al cambiamento climatico. Bisognerebbe pensarci in questi giorni da bollino rosso che una parte del caldo estremo è attribuibile a quei vestiti di troppo, acquistati senza troppi pensieri e allo stesso modo abbandonati nei cassonetti delle raccolte.
«Chiediamo di approvare un ambizioso trattato globale sulla plastica – spiega Greenpeace Italia – per ridurre a monte la produzione, anche di tessuti sintetici. I marchi della moda vanno responsabilizzati implementando le politiche obbligatorie di responsabilità estese fino al fine vita dei loro prodotti». Servirebbe poi passare ad una logica orientata al riciclo, al riuso, alla riparazione. All’utilizzo alla fonte di fibre naturali e di lunga durata. Ma tutto questo contrasta con le logiche di un mercato che si basa proprio sulla sostituzione, ossessiva e ininterrotta, che di fatto significa acquisti senza soluzione di continuità. Capi che viaggiano costantemente da una parte all’altra del mondo: prodotti in Cina, consumati in Europa, rimandati avanti e indietro tramite i corrieri grazie a consegne e cambi merce gratuiti, fatti apposta per incentivare la dipendenza dei consumatori dagli acquisti compulsivi. E quando poi non servono più, basta liberarsene.
I tutto questo anche i consumatori hanno una responsabilità e possono fare la loro parte. Innanzitutto interrompendo questa catena, limitando gli acquisti non necessari, rinunciando a quelli di bassa qualità acquistati non per necessità ma per il puro gusto di comprare tanto a poco. Sembra il bengodi economico, tutto facile. Ma ogni volta che il prezzo è troppo basso è perché c’è qualcun altro a pagarlo. E in questo caso è l’Africa, con le sue popolazioni e i suoi territori. Il principio del «chi inquina paga» qui sembra non valere. A nessuno ne viene chiesto conto.
Gli abiti usati vengono formalmente importati perché «possono servire a chi ne ha bisogno». Una logica che parte già da casa nostra, quando li portiamo nei cassonetti della Caritas o di altre associazioni che li raccolgono. Quando va bene c’è una prima selezione, che isola dalla massa gli indumenti che effettivamente possono subito essere assegnati a persone bisognose con cui le associazioni sono in contatto tramite i propri centri sparsi sul territorio. Il resto viene venduto in blocco ad aziende che fanno a volte una seconda cernita, ma che spesso li cedono a peso a titolari di negozi dell’usato che contano di ricavarci qualcosa, rivendendoli al dettaglio a clienti in stato di necessita. Una parte dei tessuti vengono inviati al riciclo. Ma il grosso finisce col diventare scarto. Ed è a quel punto che imbocca la via per l’Africa. Si valuta che almeno il 50% di ciò che parte dall’Europa è puro e semplice rifiuto, abiti talmente danneggiati o deteriorati da essere inutilizzabili. E a cui neppure l’estrema povertà riesce a a dare un valore. Questa è la nostra carità.
10 luglio 2025
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