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Il carcere è più di una prigione: viaggio nei penitenziari italiani

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Billy Boy dice di avere «preso così tante botte in vita sua da non aver paura di nulla, neanche di morire». Adesso scrive pezzi rap, da tre anni sta nella comunità di don Claudio Burgio. II primo posto, da quando è nato, in cui ha trovato ascolto anziché violenza. Di anni ne ha 19, madre sparita quando era piccolo e padre in galera da sempre, tante famiglie affidatarie ma nessuna giusta, una pistola tatuata sul braccio. Imparare a fidarsi anziché difendersi, rispetto alla vita, è una conquista lenta. Alla domanda su come si immagina tra dieci anni — la più difficile in ogni caso, anche per chiunque di noi — risponde che gli basterebbe avere «una casa, un lavoro, una famiglia, ma soprattutto stare bene, in pace».

La sua è solo una delle Vite minori che con efficace eufemismo sono anche il titolo (sottotitolo: Storie vere di ragazzi dietro le sbarre, il Millimetro) di un libro alla cui lettura dovrebbe dedicare un pomeriggio chiunque abbia dei figli. Perché la famosa domanda che Papa Francesco diceva di sentirsi venire addosso ogni volta che visitava un carcere — «perché loro e non io?» — è la stessa che dovrebbe interpellare ciascuno di noi, moltiplicata per cento, quando in ballo ci sono ragazzi e ragazze.

Raffaella Di Rosa, giornalista con passo di narratrice e precisione da ricercatrice, ci accompagna in un viaggio di quindici capitoli nell’universo carcerario italiano. Minorile ma non solo. Perché di giovanissimi sono sempre più piene anche le carceri degli adulti. È quel mondo parallelo che di solito entra nei nostri pensieri giusto per qualche attimo ogni tanto, quando al tg passa la notizia di un ragazzo arrestato per qualcosa. Ma se la civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri — come ricorda nell’introduzione Enrico Mentana richiamando Voltaire — il passaggio necessario sta nel conoscerla, la realtà delle carceri. E quasi sempre il primo impatto è un pugno.

Così il primo fotogramma che incontriamo in questo libro è quello con Youssef Moktar Loka Barsom, 18 anni, dentro una bara in aeroporto al Cairo mentre sta tornando a casa dopo esser morto nel settembre 2024 nella cella 201 di San Vittore a Milano, dove la giustizia di un Paese che avesse voluto ispirarsi davvero a Voltaire non avrebbe dovuto metterlo stante la sua condizione di «incapacità di intendere e volere» certificata da perizia psichiatrica. Risalente già ai tempi del primo arresto, quando era finito al minorile Beccaria anche a seguito di un telefonino rubato e poi restituito dopo averlo usato per chiamare la madre: peccato che la vittima del furto avesse nel frattempo chiamato la polizia. È un ribelle Youssef. Tutti lo amano, nessuno lo sopporta, lui reagisce tagliandosi a ripetizione o facendosi male in ogni altro modo possibile. A San Vittore muore soffocato dal fumo di un materasso bruciato in una cella. C’è stata un’inchiesta. Un avvocato a cui si è rivolto Jorge, il fratello di Youssef, si è opposto all’archiviazione. Nel frattempo del ragazzo resta una foto, scattata appunto col fratello, in una delle comunità da dove poi era scappato.

Poi c’è il marocchino Hisham, anche lui finito al Beccaria dopo Nisida e dopo qualche comunità di Napoli, dopo il viaggio da casa alla Spagna dentro un camion, fino all’arrivo in Italia via Belgio-Francia-Germania-Svizzera. Reati di sopravvivenza, tanta droga in corpo, tanta violenza addosso. C’è la conferenza stampa «che non avremmo mai voluto fare», come dice il procuratore Marcello Viola, per l’arresto degli agenti del Beccaria accusati anche di tortura. C’è la coordinatrice degli educatori Elvira Narducci che dice di non aver mai visto una situazione così drammatica in 32 anni di lavoro in carcere. Ci sono Sulè e Abdel, in attesa di corsi per imparare qualcosa o semplicemente per impiegare il tempo, che magari iniziano ma che spesso non arrivano in fondo perché poi le risorse finiscono. Rivolte che si ripetono, non per ottenere questo o quello ma come sfogo di rabbia compressa che la garante dei detenuti Monica Gallo sintetizza in questo modo: «Tu mi fai stare così, io ti distruggo il contenitore in cui mi hai rinchiuso». Come al Ferrante Aporti di Torino. In una cella si era rotto il telecomando della tv: «I ragazzi hanno cominciato a sfasciare tutto — dice Ahmed — e quando tutti protestano alla fine lo fai anche tu». «Eravamo troppi in cella», dice Marco: è uno dei ragazzi condannati per aver buttato una bici giù dai Murazzi, altro gesto «fatto senza motivo» salvo che avrebbe reso tetraplegico un altro giovane, Mauro Glorioso, che semplicemente si trovava là sotto.

Da Catanzaro a Pontremoli, dall’Albania a Rozzano, Flora e Belèn, nomi e luoghi che sono molto più di una antologia di «casi». E anche tanti operatori, agenti, volontari che ci mettono l’anima e il cuore per provare a remare controcorrente dove la corrente dominante è quella di uno Stato e di una politica che con buona pace delle chiacchiere e della Costituzione ha in mente più che altro il consenso di una opinione pubblica da compiacere «punendo» assai più che recuperando. Senza tenere conto del fatto che «questi ragazzi — come sottolinea Gaia Tortora in postfazione — sono anche il nostro futuro e se li perdiamo non è solo una loro sconfitta: è una sconfitta per tutti».

6 luglio 2025 (modifica il 6 luglio 2025 | 11:33)

6 luglio 2025 (modifica il 6 luglio 2025 | 11:33)

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