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I settant’anni di Italia Nostra: il patrimonio «difeso a gomitate»

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Qualcuno accusa Italia Nostra (…) di praticare una specie di terrorismo ideologico. È vero. Essa ricorre anche a metodi intimidatori, per smuovere una opinione pubblica fiacca e restia», sbottò Indro Montanelli. «Ma pur non appartenendo a quell’associazione, noi questi metodi li approviamo e condividiamo. Per il semplice motivo che siamo una minoranza, e le minoranze, per non farsi sommergere, devono ricorrere anche ai gomiti».

Era il 1° agosto 1967 e il Gran Borghese sapeva bene che alcuni lettori del «Corriere della Sera» avrebbero sollevato il sopracciglio davanti a quella rivendicazione barricadera. L’opposizione dura contro l’assalto del turismo di massa alle coste liguri e toscane o alle sue amate Dolomiti, però, gli premeva di più. E così gli premevano la strenua difesa di gioielli come Asolo, in Veneto («Perché il tecnico o l’operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino qui per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas?»), o i colli fiorentini: «Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno».

Certo, umbratile e solitario com’era, non era tipo da associarsi manco a una aggregazione di persone che la pensavano come lui. Figurarsi! A maggior ragione però quelle parole d’appoggio così nette valgono doppio. E restano scolpite nella storia di Italia Nostra come quelle che Antonio Cederna, lui sì non solo «socio» ma nell’84 presidente della sezione romana, scriverà rispondendo a muso duro alle lagne politichesi di un sottosegretario della Dc: «Quali che siano i limiti (o i pregi) derivanti dal volontariato e dalla scarsità di mezzi, nella sua quasi trentennale attività Italia Nostra (sia al centro che alla periferia) ha condotto incessantemente la sua attività di denuncia e di proposta senza mai guardare al colore politico dei governi centrali e locali».

Affermazione difficile da negare. Fondata il 29 ottobre 1955 da Umberto Zanotti Bianco (il primo presidente), Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, Hubert Howard, Luigi Magnani e Pietro Paolo Trompeo e via via benedetta dall’adesione del fior fiore dei nostri intellettuali impegnati nella difesa del patrimonio storico, artistico, ambientale e paesaggistico a partire da Fulco Pratesi e Giulia Maria Crespi che avrebbero poi fondato il Wwf e il Fai pur mantenendo solide alleanze sui temi, Italia Nostra può dire d’essere stata protagonista di battaglie epocali. Spesso d’avanguardia. Senza reverenze per nessuno.

Non c’è più un solo cuore storico cittadino, oggi, aperto alle auto. Non uno. Ma allora? «Le macchine sono parcheggiate permanentemente sui due lati della carreggiata che la contorna (ne abbiamo contate, una sera, 230) e spesso invadono i margini della pedana centrale», scriveva nel ’68 Cederna di piazza Navona. «Questa massiccia e goffa fiumana motorizzata è uno sfregio permanente, un’offesa volgare al carattere e alla funzione stessa della piazza». Ovvio, per noi, oggi. Eppure, dopo decenni di rivolte, esperimenti, mediazioni, dicono gli archivi, solo nel 2012 furono infine piazzate delle catene per chiudere una volta per tutte l’accesso a tutti. E così andò in mille altri casi.

Era un’Italia sorda alle voci che si mettevano di traverso al boom, all’arricchimento, allo «sviluppo». Un’Italia che a Bocca di Magra, in Liguria, vedeva cittadini ingordi invocare «meno sentimentalismo sterile e più cemento costruttore!». Che esaltava il caos creativo della «galassia di fabbrichette» che avrebbe portato paesotti come Altivole, nel Trevigiano, ad avere 59 aree industriali. Che nel «triangolo della morte» Augusta, Priolo e Melilli, in Sicilia, accettava lo scambio perverso tra posti di lavoro e scarichi tossici di mercurio, arsenico e piombo. Che nel Piano regolatore veneziano del ’62 scriveva nero su bianco «nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose». Testuale.

Fu lì che Italia Nostra assunse il ruolo di coscienza civica della nazione: «Noi non siamo affatto contro la civiltà industriale: ci rendiamo ben conto della realtà in cui viviamo, non vogliamo affatto scatenare, con l’arresto della civiltà industriale, come vorrebbero hippies e altri, una catastrofe mondiale», spiegava Giorgio Bassani nel ’71. «Ma essa va in qualche modo corretta, controllata, piegata alle esigenze di un’umanità totale e non soltanto consumistica: questo è il punto fondamentale».

E quello fu il senso di tante battaglie. Contro i palazzoni sull’Appia Antica segnalati da Cederna: «Tutto cominciò con la costruzione, al quarto chilometro, per intervento di un’alta personalità, della smisurata Pia Casa S. Rosa, ospizio per bambini minorati autorizzato dal Comune “per deferenza alla benefica istituzione” (…) che servì a intaccare il vincolo…». Contro l’«adeguamento» di Venezia al «progresso» combattuto da Montanelli quando il Comune ipotizzava superstrade translagunari con alti piloni «dipinti coi colori della laguna». E poi contro la lottizzazione di mille ettari a Capocotta, sul litorale laziale, contro lo stravolgimento dei parchi di Migliarino, nel Ferrarese, di San Rossore, in Toscana, e del Pollino, in Calabria, contro il degrado del delta del Po sottoposto all’estrazione massiccia di acqua metanifera con un abbassamento fino a due metri, contro la «svendita» al turismo di Firenze ed altre città d’arte, contro l’autostrada Alemagna che doveva solcare Cortina d’Ampezzo, contro lo stadio Olimpico che doveva sorgere a Roma sopra le catacombe di San Callisto, contro «l’uccellagione e il cosiddetto “sport” che consiste nello sparare, da seduti, con tonitruanti schioppi, a stormi di uccellini del peso di qualche grammo» denunciati da Alfredo Todisco, contro lo svuotamento del palazzo che ospitava il museo Torlonia per farne un condominio di appartamenti di lusso, contro l’occupazione illegale di Palazzo Barberini da parte del Circolo Ufficiali, contro l’edilizia d’assalto ad Agrigento bollato sul «Corriere» da Renato Guttuso con parole di fuoco…

Non c’è praticamente battaglia per salvaguardare quello che Benedetto Croce definì «il volto della patria» che non abbia visto in prima fila Italia Nostra coi suoi volontari, i suoi attivisti, i suoi avvocati impegnati in centinaia di esposti, ricorsi, querele. Troppo «duri e puri», a volte? Può darsi. Ma adesso? Cosa resta adesso di quella bellicosità magari utopistica o perfino velleitaria a volte ma sempre presente, assidua, cocciuta? Domanda spinosa. Con dolorosi mal di pancia di chi chiede: a che serve un’Italia Nostra, per dirla col vecchio Indro, che non usa più i gomiti?

25 ottobre 2025 (modifica il 25 ottobre 2025 | 12:02)

25 ottobre 2025 (modifica il 25 ottobre 2025 | 12:02)

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