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I giovani pacifisti israeliani che preferiscono il carcere all’arruolamento: «Non saremo complici»

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Dicembre 2023, due mesi dall’inizio della guerra di Gaza. Davanti al militare della base di arruolamento, Itamar Greenberg, 18 anni, ha pronunciato le parole che si è ripetuto in testa da quando ne aveva 16, e gli è arrivata la prima cartolina: «Non voglio essere complice dell’occupazione e dei crimini di guerra». Gli occhi dell’uomo in divisa si sono spalancati. Il giovane appena diplomato è stato processato ed è finito in una prigione militare. Doveva starci 30 giorni, ce n’è rimasto 197: un record. «Non ho avuto paura, è la mia coscienza», ci dice Itamar, che è un refusenik, ossia chi si rifiuta di prestare servizio nell’esercito. 

Refusenik è un termine che risale all’epoca sovietica e si riferiva agli ebrei a cui veniva negato il diritto di emigrare in Israele. Oggi pochi prendono questa decisione e lo fanno pubblicamente, «sono molte di più le persone che accampano qualche scusa — disturbi fisici o psicologici — per non finire in prigione. Ma in questi mesi, tanti ragazzi ci hanno contattato per avere informazioni», ci dicono da Mesarvot, un network di obiettori di coscienza. L’esercito non diffonde i numeri di chi rifiuta, quindi è impossibile avere un quadro preciso del fenomeno. Il servizio militare è un elemento costitutivo dell’identità israeliana che coinvolge sia uomini che donne, per questo, per esempio, l’esenzione degli ultraortodossi rappresenta un’eccezione controversa. Ma proprio l’esercito rischia di diventare uno dei fronti più complicati per Benjamin Netanyahu: ai refusenik e agli ultraortodossi, si aggiungono i dilemmi morali dei riservisti e di chi è costretto a combattere una guerra che sembra infinita, e i dubbi dei capi — vedi Eyal Zamir — sull’efficacia della strategia che oggi punta all’occupazione totale di Gaza.

A dire di no ci sono anche le ragazze. A febbraio 2024, Sofia Orr ha rifiutato l’arruolamento ed è stata in prigione per tre mesi. «Lo avevo deciso molto prima della guerra di genocidio che è in corso — spiega —, ai miei nipoti vorrò dire “io mi sono opposta”». La madre e il padre sono sempre stati dalla sua parte, ma erano preoccupati per il carcere. Sofia racconta che alcune persone che conosce vorrebbero seguire il suo esempio, ma lo stigma che comporta è troppo pesante da sopportare. «Ricevo ogni giorno minacce di morte e di stupro via social. Ho amici che non mi parlano più», continua la ragazza. 

Un altro refusenik, Iddo Elam, trenta giorni in prigione, dice che durante i colloqui di lavoro, succede spesso che ti chiedano «in quale reparto dell’esercito sei stato?». Se la frangia più liberal della società sostiene la coraggiosa scelta di questi giovani pacifisti che sognano uguali diritti per israeliani e palestinesi, quella conservatrice e nazionalista li accusa di tradimento. «In prigione ho conosciuto diversi ragazzi refusenik che non hanno reso pubbliche le loro storie. Cresciamo, ma non siamo ancora abbastanza», continua Itamar. Sofia sogna un mondo senza eserciti, ma sa che è un’utopia, nonostante gli slogan sulla maglietta: «Non voglio però che i militari siano lo strumento di un’occupazione illegale».

Poi ci sono i riservisti. Sono migliaia a non presentarsi in servizio, mandando in crisi il sistema di reclutamento, che è basato su di loro per il 70 per cento. Di norma, le risposte ai richiami hanno una percentuale molto alta, ma da quando è cominciata l’invasione di Gaza le adesioni sono diminuite. Per Eran Duvdevani, ex colonnello in pensione, «le ultime strategie militari di Netanyahu mettono a rischio la vita degli ostaggi, dei soldati e dei civili palestinesi. In tanti non hanno più intenzione di servire un Paese che fa scelte suicide».

7 agosto 2025 ( modifica il 7 agosto 2025 | 09:37)

7 agosto 2025 ( modifica il 7 agosto 2025 | 09:37)

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