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I delfini? Per orientarsi, preferiscono “toccare” il mondo anziché “vederlo”

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Che cosa si prova a essere un delfino? 

Immaginate la tavola del salotto imbandita. All’improvviso salta la corrente: tutto sprofonda nel buio, ma avete ancora fame. E non sapete con esattezza dove si trovino le posate. Iniziate a cercarle alla cieca, tastando ogni oggetto con cautela. Le dita scorrono sullo stelo di un calice, sulla lama zigrinata di un coltello, sulla stoffa morbida di un tovagliolo… Procedete per tentativi. E ogni errore, ogni piccolo successo, guida il gesto successivo. Finché non le trovate.

Per i delfini, orientarsi nello spazio funziona più o meno allo stesso modo. Secondo uno studio pubblicato pochi giorni fa su PLOS ONE, gli echi che questi animali emettono per ecolocalizzare non servirebbero tanto a “vedere” con il suono, come spesso si è sostenuto, quanto a “toccare” con i suoni. Una ricognizione dei mari dinamica, reiterata, corretta in tempo reale.

Una metafora sensoriale

Alla base di questo processo, i ricercatori hanno individuato una connessione cerebrale forte e significativa tra il collicolo inferiore (centro dell’elaborazione uditiva) e il cervelletto, la struttura che nei mammiferi regola e affina il movimento. Una via neurale che sembra sostenere un ciclo serrato di azione e retroazione: ogni eco emesso plasma il gesto successivo. Non una visione sonora statica, quindi, ma qualcosa di molto più simile a un’esplorazione tattile. “Simile”, però, non significa “uguale”. L’idea di toccare con il suono è, ovviamente, una metafora. Come tutte le metafore, è corretta soltanto in parte. «Nei nostri risultati non c’è nulla che indichi la presenza di una vera sensazione tattile legata all’ecolocalizzazione» spiega al Corriere Animali Peter Cook, professore associato di Psicologia e Scienze dei Mammiferi Marini all’Università di Santa Cruz, in California (Stati Uniti), e autore senior della ricerca (la prima autrice è Sophie Flem, ricercatrice). «Per esempio, non abbiamo osservato connessioni potenziate tra aree uditive e tattili, anche se — va detto — non le abbiamo cercate in modo specifico».

Un passo in avanti rispetto al passato

Allora, cosa c’è di nuovo? Negli Anni ’70 e ’80, alcuni etologi russi, dopo aver impiantato elettrodi nei cervelli di delfini e focene, avevano riferito l’attivazione della corteccia visiva in risposta ai suoni. Si ipotizzava che il mondo esterno venisse visto dai delfini come un’immagine mentale, e che gli echi servissero a darle maggior nitidezza. Ma quell’evidenza è oggi considerata sospetta: le aree visiva e uditiva, in questi animali, sono adiacenti, e il segnale registrato potrebbe essere stato spurio. Per chiarire la questione, il gruppo di Cook ha analizzato i cervelli di tre odontoceti, cetacei dotati di ecolocalizzazione, confrontandoli con quello di una balenottera boreale (Balaenoptera borealis), un misticeto privo di sonar ma evolutivamente affine. Tutti i campioni provenivano da animali già deceduti e conservati in collezioni anatomiche. Un approccio post mortem che, seppur limitato, resta tra i pochi praticabili allo stato attuale. «Ottenere dati cerebrali in vivo nei delfini è molto complesso» osserva Cook. «L’elettroencefalografia non raggiunge le aree profonde che ci interessano. Le immagini funzionali richiederebbero animali addestrati e condizioni ideali. E ci sono ovvie barriere etiche e legali all’impianto di dispositivi invasivi». I ricercatori hanno quindi utilizzato una tecnica di imaging che traccia il movimento delle molecole d’acqua lungo le fibre nervose, ricostruendo, tramite la velocità di scorrimento, le connessioni tra le aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione sensoriale.

Quesiti aperti

Non è emersa alcuna attivazione anomala della corteccia visiva, come suggerivano le vecchie ipotesi sovietiche. Ma si è rivelata una connessione robusta, ben definita, tra collicolo inferiore e cervelletto. «Il cervelletto supporta certamente funzioni cognitive, non solo motorie» sottolinea Cook. «Potete immaginare un delfino che punta il proprio fascio sonar su una superficie, riceve un certo tipo di feedback, formula rapidamente un’ipotesi sul tipo di superficie “vista” con il suono e poi sposta il fascio per verificarla. In effetti, sappiamo che i pipistrelli, anch’essi mammiferi, sono in grado di distinguere le trame superficiali attraverso l’ecolocalizzazione». Resta, infine, una domanda insoluta: il circuito tra collicolo inferiore e cervelletto esiste anche in specie marine non ecolocalizzanti, come i misticeti? E perché? «Sì, e potrebbe servire a prevedere cosa accadrà dopo un suono, per evitare un predatore o per comunicare in modo più efficace» ragiona Cook.

Il che apre una possibilità più ampia: che l’ascolto, in molti animali, sia un senso più attivo, più sofisticato, di quanto finora ritenuto. La percezione di un delfino, forgiata da milioni di anni di evoluzione acquatica, probabilmente non ha eguali nel nostro repertorio sensoriale. Non è vista. Non è tatto. È qualcos’altro. Qualcosa che sfugge. Per ora.

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Riferimenti: Flem S, Berns G, Inglis B, Niederhut D, Montie E, et al. (2025) Lateralized cerebellar connectivity differentiates auditory pathways in echolocating and non-echolocating whales. PLOS ONE 20(6): e0323617. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0323617

13 luglio 2025 ( modifica il 13 luglio 2025 | 08:58)

13 luglio 2025 ( modifica il 13 luglio 2025 | 08:58)

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