
Donald Trump non conosce la parola “fine”. È capace di rimangiarsi la parola data, di ritrattare un accordo annunciato. Così il tormentone dei dazi rimane aperto a sorprese, ripensamenti, colpi di scena. Chissà quando arriverà a un approdo stabile, se mai ci arriverà. D’altronde questo presidente ha voluto stracciare e rinegoziare i patti commerciali che lui stesso aveva raggiunto con Canada e Messico nel suo primo mandato. Oltre a decine di aspetti fluidi e in corso di definizione con l’Unione europea, il Giappone, la Corea del Sud (tre partner con cui ha annunciato un accordo di massima, salvo dettagli da precisare, appunto), su altri fronti è cominciato l’utilizzo delle tasse doganali come arma geopolitica. Trump minaccia di colpire il Canada se si ostina a riconoscere lo Stato palestinese; il Brasile se si accanisce a perseguire in via giudiziaria l’ex presidente Bolsonaro accusato di tentato golpe; l’India se continua a comprare petrolio dalla Russia.
Retroterra
In ciascuno di questi casi le sortite di Trump hanno un retroterra specifico. Trump non esclude in via di principio che la Palestina abbia diritto a uno Stato, pensa però che in questa fase non ne esistano le condizioni né a Gaza né in Cisgiordania. Sui procedimenti contro Bolsonaro sono state sollevate obiezioni da molte parti, non solo trumpiane (la Corte costituzionale di Brasilia è notoriamente politicizzata). Infine i dazi all’India sarebbero un modo per colpire Putin. Si tratta in quest’ultimo caso di sanzioni indirette, il cui vero bersaglio sarebbe la Russia, che finora ha continuato a esportare energie fossili in mezzo mondo (Europa inclusa) perché il regime sanzionatorio è un colabrodo.
Trovare di volta in volta delle spiegazioni per alcune delle nuove minacce di Trump, non toglie che esse siano dirompenti. I dazi diventano un’arma tuttofare, dagli utilizzi multipli. Finché vengono presentati solo come uno strumento per sanare squilibri delle bilance commerciali, siamo in un ambito economico, controverso ma delimitato. Tuttavia il 47esimo presidente li usa — o li minaccia — anche per piegare altri Paesi alla sua volontà su questioni di politica estera e perfino interna. Un accordo ritenuto valido sul terreno commerciale, può saltare se il Paese si mette di traverso alle priorità geopolitiche di Washington.
Stiamo entrando in un mondo nuovo, le cui regole del gioco cambiano sotto i nostri occhi. Tra gli analisti più lucidi c’è lo storico americano Walter Russell Mead: un conservatore non trumpiano, seguace della realpolitik di Henry Kissinger. Mead spiega che Trump sta mettendo a frutto l’immenso potere di pressione che l’America ha accumulato nei decenni su due fronti: come mercato di sbocco delle merci altrui (di gran lunga il più ricco e aperto) quindi locomotiva di traino della crescita europea o asiatica; e come fornitrice di protezione militare a tanti alleati, nella Nato, in Medio Oriente, in Estremo Oriente. Minacciando di togliere l’uno e l’altro — il mercato di sbocco Usa e la protezione armata — vuole strappare concessioni a getto continuo. Non solo sul terreno commerciale, anche su quello politico.
La geoconomia
«The name of the game», la definizione del nuovo gioco al quale stiamo tutti partecipando (volenti o nolenti), è «geoeconomia». Secondo una definizione data dallo stratega militare Edward Luttwak ben 35 anni fa, la geoeconomia è «l’intreccio della logica del conflitto con il metodo del commercio». Un’altra descrizione classica è questa: «l’uso di strumenti economici per promuovere e difendere gli interessi nazionali». Tali strumenti comprendono dazi, politiche industriali, vincoli regolatori, svalutazioni aggressive della valuta, acquisizioni di proprietà estere, controlli sull’export di energia e terre rare. Jonathan Black, vice consigliere per la sicurezza nazionale del Regno Unito, è stato citato sul Financial Times per questa riflessione: «L’intersezione tra interessi economici e sicurezza è la sfida sistemica del nostro tempo. Essa domina sempre più l’agenda non solo dei vertici internazionali e dei governi, ma anche dei consigli di amministrazione aziendali». Non è una novità assoluta. Poiché geoeconomia evoca una fusione tra l’economia, la geopolitica, le dottrine militari, è bene ricordare che negli anni 70/80 quando eravamo invasi dal Giappone, le business school occidentali si misero a insegnare ai manager l’etica marziale dei samurai; nel 2000 con l’inizio del «secolo cinese» fu la volta di Sun Tzu, «L’arte della guerra»
I più attrezzati
Alcune aree del mondo hanno sempre pensato in termini di geoeconomia. Forse per questo oggi la nazione che sembra meglio attrezzata, anche culturalmente, ad affrontare gli shock multipli di Trump è la Cina. Nel pensiero dei suoi leader comunisti, Xi Jinping in testa, non è mai esistita una linea di demarcazione precisa fra strategia militare, strategia industriale, innovazione tecnologica, politica estera e politica interna. Il tutto fa parte di un approccio «olistico»: per Pechino ogni ramo dello Stato, ogni settore dell’economia privata, nonché le istituzioni accademiche e scientifiche, devono contribuire a rafforzare il Paese in vista della sfida finale con gli Stati Uniti per l’egemonia. In tempi non sospetti (2010) Pechino non esitò a mettere in ginocchio il Giappone con un embargo sulle terre rare, per un castigo squisitamente politico
Noi impreparati
Di fronte a un ritorno in forze della geoeconomia l’Europa è sbigottita e impreparata. Era sì abituata a presidenti Usa che perseguivano gli interessi nazionali cercando però di tener conto di quelli degli alleati, e ammantando comunque il discorso geopolitico di valori comuni. Con Trump tutto si riduce ai nudi rapporti di forze. Su questo terreno l’Europa paga ritardi enormi, la lista è lunga: le mancano una difesa, dei campioni Big Tech, delle politiche industriali, un’attenzione strategica all’approvvigionamento di risorse rare, un vero mercato dei capitali. Trump ha una sorta di istinto animale nell’intuire le debolezze multiple nei partner; mentre è costretto a scegliere la prudenza e il compromesso quando ha di fronte la Cina. L’uso dei dazi come arma dai multipli scopi rientra in questo cinico revival della geoeconomia. Non è detto che sia l’America il vincitore finale, però la solidità della sua economia (l’ultimo dato è la crescita del 3% del Pil) consiglia di non sottovalutare la possibilità che infligga molti più danni agli altri — Cina esclusa? — di quanti possa subirne.
1 agosto 2025 ( modifica il 1 agosto 2025 | 07:27)
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