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Gottardo, strage del 1875: il fuoco degli svizzeri sugli operai italiani

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«L’acqua arrivava al ginocchio degli operai che per tempo lunghissimo vi lavoravano quotidianamente», spiegò il professor Alberto Parona, poi direttore fino alla morte del Fatebenefratelli, aggiungendo che il caldo infernale rendeva la galleria paragonabile «alla palude di un Paese tropicale». Ed era così fetida quell’acqua infettata da loro stessi «costretti a defecare sotto i 15 km di tunnel» e dotati di «scarpe consumate e rotte», che i minatori già indeboliti dalle condizioni igieniche disastrose in cui vivevano (rapporto del medico ispettore Jakob Laurenz Sonderegger: «Escrementi dappertutto. Nella maggioranza delle case non si può entrare… Se si apre una porta ti investe una puzza paragonabile solo a quella di un pollaio mal tenuto») furono colpiti uno dopo l’altro, spesso fino alla morte, da un virus misterioso e letale. Racconterà nel 2012 Antonio Alfano su «Corriere Salute»: era l’«ancyilostoma duodenale, malattia chiamata, sulle prime, “anemia del Gottardo”».

E questi lutti, documenta Konrad Kuoni in La costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo in termini economici, politici e sociali, si sommarono a quelli causati dalle esplosioni della dinamite usata per gli scavi, dalle fughe di gas, dai crolli… Così frequenti che «il medico della Gotthardbahn-Gesellschaft a Göschenen, il Dr. Föder scrisse di due o tre lavoratori uccisi al mese. Estrapolando questo dato a entrambi i versanti, si arriva a più di cinquecento morti».

Fu un inferno, un secolo e mezzo fa, la costruzione del traforo del San Gottardo, tra il versante tedesco e quello italiano della Svizzera, per quei poveretti che per il 94% erano emigrati lombardi, piemontesi, veneti, toscani più un gruppo di trentini allora sudditi austriaci. E ad Airolo, una sessantina di chilometri a nord di Bellinzona, lo ricorda uno struggente bassorilievo in bronzo dell’artista ticinese Vincenzo Vela dove tre minatori sfatti dalla fatica e dallo strazio portano via il corpo di un compagno morto.

Era così duro e rischioso quel lavoro, vinto dall’impresario svizzero Louis Favre impegnandosi a costruire il tunnel in soli otto anni con una penale capestro per ogni giorno di ritardo (una scommessa che lui stesso pagherà carissima morendo d’infarto lì, in cantiere) che gli operai scavavano e picconavano ininterrottamente su turni così massacranti da spingere i veneti a dar vita a una canzone sulle note che sarebbero state riprese in Ta pum nella Grande guerra dopo la battaglia sull’Ortigara: «Maledeto sia el Gotardo / l’ingegneri che l’àn progetà / e quei pori minatori / soto i colpi o xè restà».

Un giorno che non ce la facevano più a resistere, alla fine di luglio del 1875, chiesero «che le 24 ore giornaliere fossero ripartite non più fra tre, ma quattro squadre, ognuna delle quali avrebbe quindi lavorato 6 ore: 8 ore consecutive nel baratro buio e soffocante del tunnel, in mezzo a un fumo che tappava gli occhi, era un compito al di là delle forze umane». Di più: chiesero, come ricorderà giorni dopo un documento sindacale, d’essere pagati in soldi veri e non più in «buoni di carta che albergatori e commercianti non accettavano se non trattenendo uno sconto» così che i poveretti, sfruttati fino dover «provvedere all’olio per le lampade utilizzato nello scavo», erano costretti «per non subire questo taglio, a comprare il loro cibo e altri beni di consumo nei negozi dell’impresa».

La risposta ai minatori, per bocca dell’ingegnere Ernst Der Stockalper, fu gelida: «Avete ragione. Qui la vita è dura e probabilmente ingiusta. Chi non se la sente di continuare non ha che da andarsene. Passi dalla cassa e sarà liquidato. Chi, invece, desidera continuare a lavorare con noi, torni subito al suo posto. Subito». Ciò detto, ricorderà in un libro rimasto inedito Remo Grigliè, direttore negli anni Settanta della «Gazzetta dello Sport», «girò i tacchi e uscì». Umiliati dal tono e dai termini della risposta, i minatori non videro alternative: sciopero. E picchettarono l’ingresso alla galleria. Der Stockalper non ci pensò due volte. E mandò alla direzione un telegramma: «Inviate 50 uomini armati e 30 mila franchi». Poche ore e sul posto arrivò una squadraccia di sgherri armati fino ai denti che, accolti a sassate dagli operai disarmati, risposero a fucilate. Quattro italiani morti, decine di feriti, sciopero represso nel sangue.

Indignato, il drammaturgo Félix Pyat scriverà furente una Lettera agli operai svizzeri: «Le fucilazioni di Göschenen non si sono perdute nel tunnel del Gottardo! Il loro frastuono ha passato i monti e i mari e rimbomba ovunque il povero lotta, soffre e muore a causa del ricco». Era il 5 settembre 1875. Esattamente 150 anni fa. Eppure di quel massacro di fine luglio, in questa estate, non si è ricordato nessuno. Peccato. «Dimenticare i morti equivarrebbe a ucciderli una seconda volta», scrisse Elie Wiesel a proposito delle vittime nei lager. Vale anche per quei nostri nonni.

3 settembre 2025 (modifica il 3 settembre 2025 | 21:50)

3 settembre 2025 (modifica il 3 settembre 2025 | 21:50)

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