
Ho conosciuto Giuseppe Trautteur circa 55 anni fa, nel 1971. Avevo appena pubblicato un articolo sui Princìpi del calcolo infinitesimale di René Guénon per «Conoscenza Religiosa», la rivista diretta da Elémire Zolla per La Nuova Italia. Allora fu Trautteur stesso a cercarmi. Erano tempi di acceso confronto politico e culturale, e Giuseppe notò evidentemente qualcosa in ciò che avevo scritto che lo attraeva e incuriosiva. Lui era così: immediatamente reattivo e pronto a ingaggiare intense discussioni sui princìpi del sapere scientifico, princìpi che è arduo, di solito, fissare in una forma assoluta e definitiva, e che lui era sempre pronto a rimettere in gioco. Temi enormi come le idee di numero, caso, probabilità, informazione, complessità, algoritmo e della stessa di ratio calcolante nella storia della scienza in occidente, divennero tra noi oggetto di lunghe discussioni. Ne uscivo con l’urgenza di approfondire problemi di cui non avevo ancora immaginato tutta l’estensione e l’importanza. Per me i primi incontri con lui furono assolutamente decisivi, un aiuto prezioso per orientarmi nell’intricata selva intellettuale ove si intrecciavano i più diversi filoni dell’informatica teorica e della matematica computazionale. Era una scienza del calcolo allora in rapidissima evoluzione.
Ugualmente scienziato e umanista, Giuseppe univa a una cultura straordinaria una penetrazione e un’eleganza inusitata del pensiero e della parola. Era fisico di formazione e insegnava informatica teorica a Napoli. Intellettuale apertissimo, era sempre interessato anche alle idee che provenivano da ambiti della ricerca scientifica a lui relativamente estranei. Amico personale di Roberto Calasso, divenne suo consulente scientifico, e fu da sempre ispiratore e responsabile della Collana Scientifica di Adelphi. Devo a lui la più sapiente lettura critica in anteprima di tutti i miei libri, a cominciare dalla Breve storia dell’infinito, pubblicata nel 1980. Giuseppe seppe comprendere le tesi di quel libro con più penetrazione di chiunque altro, e meglio ancora di quanto le abbia comprese io stesso, che ne ero l’autore. Se le dovessi riassumere ora, non farei che ripetere i primi commenti che Giuseppe mi spedì in una sua lunga e dettagliatissima lettera. Di qui, come si può immaginare, ebbe origine la nostra amicizia, un sodalizio affettivo e intellettuale di cui non potrei esagerare l’importanza. Giuseppe non si risparmiava certo, quando ne aveva motivo, le critiche più pungenti e impietose sui numerosissimi libri che gli capitava di leggere. Ma le sue conclusioni non erano sempre come uno si sarebbe aspettato. Alla fine le eventuali incongruenze e superficialità potevano apparirgli difetti veniali, di fronte ad argomentazioni originali sostenute con sufficiente cognizione di causa. Così alla critica più feroce potevano subentrare apprezzamento e approvazione. Giuseppe leggeva tutto e scriveva pochissimo, quasi che la sua sterminata cultura avesse un effetto bloccante e deterrente, fino a sconsigliarlo o impedirgli a priori qualsiasi possibilità di organizzare il sapere in qualche forma inedita che gli sembrasse plausibile. Quando era lui a scrivere in prima persona, l’ironia si combinava con la passione, il rigore con l’eleganza. Come Bobi Bazlen era stato il grande suggeritore per Adelphi per la letteratura, così lo è stato Giuseppe Trautteur per la scienza; una scienza, la sua, che spaziava dalla fisica all’informatica, dalla matematica alla biologia, dall’antropologia alle neuroscienze, dalla genetica alla psicologia. Possedeva pure una capacità rabdomantica nell’individuare talenti e testi non conformi a certa scontata letteratura di stampo divulgativo. Si deve anche a lui la scelta o il consiglio di pubblicare libri straordinari come Gödel, Escher, Bach, di Douglas Hofstadter, Il Mulino di Amleto di Giorgio de Santillana, La società della mente di Marvin Minsky.
Suo rovello incessante restò a lungo la natura della coscienza, sulla quale sperava con fiduciosa ostinazione di far luce con gli strumenti che venivano dalla fisica e dall’informatica teorica. Sul tema organizzò un memorabile convegno, i cui Atti furono pubblicati da Bibliopolis. Ma dopo qualche tempo pensò che il compito fosse proibitivo, non affrontabile con le conoscenze disponibili, e dovette prendere atto di trovarsi infine, come gli piaceva dire, au pied du mur. Per Adelphi scrisse poi nel 2020 Il prigioniero libero, un saggio esemplare sul libero arbitrio, dove le sue conoscenze di psicologia cognitiva si fondono con la sua sensibilità e con la sua profonda formazione di umanista. Giuseppe ha sempre cercato di mantenere non solo le sue scelte editoriali, ma anche le sue stesse ricerche scientifiche, su un’attenta posizione di equilibrio e di cautela scettica, tra anima ed esattezza, lontano sia dall’aridità di certa routine accademica sia da inavveduti sconfinamenti in direzione new age. Infine, tra i nostri ultimi incontri non posso non citare in particolare tre giorni di insegnamento e di colloqui intensissimi a Rovereto assieme a Giorgio Vallortigara e a Mauro Sellitto su quello che Giuseppe considerava un enigma irrisolto, ovvero l’idea stessa di numero, base irrinunciabile di ogni scienza. Sarà impossibile ripetere l’esperienza, e non potremo certo contare su una disperata evocazione spiritica di cui egli sarebbe giustamente scandalizzato. Dovremo allora rassegnarci alla sua mancanza e al vuoto incolmabile che ha lasciato. Ma forse, interpretando un suo stesso desiderio, sarà consolante e vivificante ricordarlo in una prossima occasione insieme alle persone che gli sono state più vicine.
24 ottobre 2025 (modifica il 24 ottobre 2025 | 17:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
24 ottobre 2025 (modifica il 24 ottobre 2025 | 17:16)
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