
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME – I sacchetti di plastica valgono più di un carretto o una carriola perché una volta riempiti sono facili da nascondere sotto la maglietta o nei pantaloni. Così quando arriva l’ordine di apertura dei cancelli, sulla polvere ocra svolazzano queste bandierine bianche tenute strette dai ragazzini in ciabatte, anche se non è un segno di resa, non si può mollare dopo aver passato ore sotto il sole, ammassati sulle dune artificiali di terra e detriti che fanno da barriera.
I militari che hanno una sigla per tutto ne hanno trovata una anche per questi «centri di distribuzione rapida» (Mahpazim in ebraico) dove invece l’attesa è lenta, estenuante, fino alla corsa — qui sì bisogna essere più rapidi di tutti — in cui chi arriva ultimo resta a mani vuote e a pancia vuota i famigliari ad attendere nelle tende piantate una sull’altra lungo la costa.
Tra le macerie
I centri sono gestiti da un’organizzazione americana (la Gaza Humanitarian Foundation) che alla fine di maggio ne ha allestiti quattro: tre a sud tra le macerie di Rafah, uno verso il centro dei 363 chilometri quadrati. Troppo pochi e troppo distanti da raggiungere per molti abitanti. Di solito restano aperti solo per un’ora al mattino, gli scatoloni di cartone sono stati preparati con farina, olio, pasta, salsa, biscotti, succo di pomodoro e un vasetto di involtini di riso in foglie di vite, piatto del Levante. Il gruppo dichiara di aver dato via 800 mila pacchi da quando ha cominciato le operazioni, i primi convogli a entrare nella Striscia dopo 80 giorni, dopo il blocco imposto dal governo israeliano che voleva impedire i saccheggi dei miliziani di Hamas. Su pressione della Casa Bianca per far ripartire gli aiuti, la distribuzione è stata affidata alla Ghf, che ha appena ricevuto 30 milioni di dollari da Washington. Le Nazioni Unite sono state escluse — agiscono in parte nel Nord di Gaza ancora più disastrato — e i loro funzionari avevano previsto il caos attorno ai punti di consegna. «La popolazione rischia la vita — denunciano — per cercare di ottenere un po’ di cibo, la maggior parte delle famiglie sopravvive con un solo pasto al giorno e gli adulti saltano la loro porzione per lasciarla ai bambini».
«Zona militare»
Jens Laerke dell’Onu descrive i centri come «trappole della morte»: i testimoni locali raccontano che i soldati israeliani hanno sparato più volte verso i palestinesi in cammino verso i magazzini dell’organizzazione. I portavoce dell’esercito rispondono che le truppe hanno tirato «dei colpi di avvertimento, quando si sono sentite in pericolo». Ghf replica che nessuna sparatoria è avvenuta vicino ai centri, i soldati sono dislocati attorno, le ampie aree che controllano sono delimitate come «zona militare», chiunque si avvicini è considerato un bersaglio. Almeno 519 persone — calcola il ministero della Sanità nella Striscia, diretto da Hamas — sono state uccise in situazioni legate alla distribuzione del cibo. La Croce Rossa Internazionale spiega che nell’ultimo mese ha dovuto attivare 20 volte le procedure per «alto numero di vittime» nel suo ospedale da campo a Rafah. «Non esistono più luoghi sicuri per i civili che dovrebbero essere protetti. Ogni giorno numerose persone vengono ammazzate, anche mentre stanno cercando di ottenere da mangiare», commenta il portavoce Christian Cardon.
La smentita
L’ambasciata americana a Gerusalemme è intervenuta agli inizi di giugno per smentire che «le forze israeliane abbiano mirato alle persone in fila per gli aiuti. È Hamas che continua a terrorizzare e intimidire gli abitanti». Accusa i media statunitensi di «pubblicare falsità»: il quotidiano Washington Post ha corretto un articolo uscito nello stesso periodo «perché non specificava che le accuse contro i soldati arrivassero dal ministero della Sanità palestinese». Il dipartimento di Stato americano ha annunciato «la distribuzione di 46 milioni di pasti senza che Hamas potesse rubarli». Eppure quelli che lo stato maggiore chiama «incidenti» e su cui dice di aver aperto inchieste si sono moltiplicati dai giorni — ancora più caotici — alla fine di maggio. Il quotidiano Haaretz ne ha registrati almeno 19: «Non è sempre chiaro chi abbia sparato — scrivono i giornalisti nella ricostruzione — ma l’esercito non permette a uomini armati di avvicinarsi alle aree umanitarie». Il giornale letto dai liberal israeliani ha raccolto le testimonianze di riservisti dispiegati in quelle zone: le truppe aprono il fuoco anche con i carrarmati perché la gente non si avvicini prima che il centro inizi la distribuzione al mattino e ancora per disperdere le migliaia di persone alla chiusura. L’esercito ha replicato smentendo che «sia stato dato l’ordine di sparare ai civili mentre si avvicinano alla consegna del cibo». Il premier Benjamin Netanyahu denuncia l’articolo come «menzogne malevole».
27 giugno 2025
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