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Gaetano Afeltra, un mago in via Solferino

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«Se le cose stanno come hai detto, ti regalo un consiglio: ricorda che tu sì ’o papa e i redattori ti devono baciare la pantofola. Tienili con te e risolverai tutto». Fu questa teatrale ed esorcistica battuta pronunciata da Gaetano Afeltra nel suo slang italo-napoletano a strappare un sorriso ad Alberto Cavallari, sdrammatizzando un incontro carico di oscuri presagi. Si era a metà giugno del 1981 e per il celebre inviato cominciava la stagione al vertice del «Corriere della Sera»: sfida maturata nientemeno che su impulso del presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Sarebbe stato un triennio tumultuoso tra questione morale sulla scia dello scandalo P2, dissesto finanziario, tagli all’organico, lotte politiche e sindacali per il controllo del quotidiano. Ecco lo scenario che incupiva la tavolata, mentre si concludeva la cena al ristorante milanese Santa Lucia dove risuonò la frase sul papa-re, frutto di una mistica corrierista tipica di Afeltra.

Quella volta non giocava a fare il simpatico. L’autorità del «Corriere» cui si riferiva, e che considerava sacrale, avrebbe sconfitto le trame di certi poteri forti purché chi ne fosse stato investito avesse spirito di bandiera. Il che imponeva unità (allora purtroppo non raggiunta) ed escludeva la resa a pressioni esterne. Ne parlava con cognizione di causa. Infatti, aveva ricoperto lui stesso, tenendoci alla metafora, il ruolo di «assistente al soglio pontificio» di via Solferino nella primavera del 1945. Quando rientrò dalla clandestinità e con una memorabile prima pagina incitò gli italiani all’insurrezione antifascista del 25 aprile. Fu un impegno condiviso con Mario Borsa e con l’accordo del Comitato di Liberazione nazionale. Divenne così un riferimento dei giornalisti e il braccio destro dei direttori, anche se all’epoca aveva solo trent’anni. Una militanza professionale appassionata e che non si è mai davvero interrotta, il che gli è valso un posto d’onore nella storia della testata.

La sua è una vocazione precoce, maturata ad Amalfi, dove nasce nel 1915, penultimo di nove figli e, poco più che adolescente, decide di mettersi sulle orme del fratello maggiore, Cesare, già arrivato al «Corriere» diventandone viceredattore capo, ma dimessosi presto per la fascistizzazione della stampa. Nel ’34 Gaetanino, così lo chiamano tutti, lo raggiunge nella capitale lombarda e s’impratichisce qua e là, finché nel ’42 arriva la chiamata tanto attesa.

I sogni s’intrecciano. È a Milano, sua città d’elezione che ama visceralmente. Ed è al «Corriere», il suo iperuranio, il mondo delle idee perfette su come fare informazione, assorbendone lo stile. Lo respira nei saloni rivestiti con boiserie di noce, dove campeggiano lunghissimi tavoli dal piano inclinato mentre sulle pareti s’innalzano scaffali pieni di saggi, atlanti e dizionari in diverse lingue. Chinati sotto piccole lampade incrocia colleghi vestiti per lo più in un severo grigio antracite. L’atmosfera affabile e ovattata di un club inglese, che diventerà la sua casa.

Qui scopre ciò che gli piace, del mestiere. Progettare l’impalcatura del giornale. Mettere in cantiere inchieste, reportage, ritratti, retroscena. Fissare una gerarchia dei fatti nelle 24 ore. Perfezionare i testi asciugandoli, perché «il taglio è come il digiuno: fa sempre bene». Incuriosire i lettori con titoli estrosi. Inventare inedite simmetrie grafiche. Far entrare tutto in risonanza: redazione, stenografi, correttori, archivio, tipografia, rotative, perché non sono ammesse stonature, pigrizie o ritardi. Sono i ritmi di chi comanda la «macchina». Un impegno anonimo, invisibile, che implica cadenze pesanti (l’ultima chiusura è alle 4 del mattino), senza l’effimera gratificazione della firma, senza gloria. Responsabilità che Afeltra si assume aggiornando una tradizione e un’identità di cui si sente custode, alla quale aggiunge un’acuta concentrazione sulla cronaca, che solo Franco Di Bella avrebbe avuto dopo di lui.

Ma quel che gli è più congeniale è orientare e ispirare i pezzi dei colleghi. Che sono, tra tanti altri, Orio Vergani, Dino Buzzati, Indro Montanelli, Renato Simoni, Eugenio Montale, Egisto Corradi, Ugo Stille, e che sprona a scrivere in maniera tale da far immedesimare la gente comune. Lo fa sia al «Corriere», dove è vicedirettore, sia al «Corriere d’Informazione», l’edizione del pomeriggio, che ridefinisce e rilancia, sia al «Giorno», che guida per otto anni (1972-1980), tornando poi dove ha lasciato il cuore, in via Solferino. Per scrivere lui, stavolta. Con l’efficacia del grande affabulatore che è.

Qualche esempio. Ad Alberto Ronchey, che ha il freddo distacco di uno scienziato della politica, raccomanda «cronache politiche frizzanti, quasi d’assalto», con interviste che siano «conversazioni alla buona, non in politichese ma non banali». Lo esorta: «Non aver paura di scrivere articoli semplici».

A Orio Vergani, che ha un naturale passo narrativo, affida il reportage su un disastro aereo del 1959 a Olgiate Olona, e gli suggerisce di raccontare la tragedia parallela di sei vittime fra le settanta (e gliele indica: un industriale, una suora, una bimba, due sposini, un emigrato) sul canovaccio del romanzoIl ponte di San Luis Rey
di Thornton Wilder. «Pensa Orie», lo sprona, usando come sempre la desinenza «e» per chiudere le vocali e dunque storpiando nomi e parole. «Il destino di queste vite diverse e senza legami che si compie in un solo istante… è roba per te».

A Guido Piovene, in partenza per una monumentale inchiesta sugli Stati Uniti che durerà per l’intero 1951 (32 mila chilometri in auto attraverso 38 Stati, più di 100 reportage), fa promettere «un atto di umiltà» ascoltando anche il popolo minuto. È l’«America sconosciuta», e la illustrerà con foto di Henri Cartier-Bresson.

Ad Arrigo Levi, corrispondente da Mosca, telefona il 12 aprile 1961, giorno del volo nello spazio di Jurij Gagarin, pretendendo entro tre ore «uno storione» su come reagisce la Russia. Trascorso il termine, si rifà sentire. «Arrighe, lo hai scritto?» «Certo che l’ho scritto». «Bene, buttalo via». «Come buttalo via?». «Buttalo, ti dico. Buttalo, parla, parla al microfono, ci vuole la sensazione della realtà, della cosa vissuta, dell’emozione. Ti do gli stenografi, mi raccomando, non leggere, parla, parla». Serve sottolinearlo? Quell’ostinazione produce un capolavoro.

Casi come questi sono infiniti. Uno dei più celebri riguarda la tragedia di Albenga, dove 43 bimbi di una colonia milanese annegano con tre maestre nel naufragio di un barcone. È il 16 luglio 1947. La notizia arriva ad Afeltra a mezzanotte, mentre prende un caffè al Cova con Dino Buzzati (uno dei suoi amici più cari, assieme a Indre Montanelli) e subito insiste perché vada sul posto. Buzzati è stanco e lo supplica di lasciarlo perdere, ma alla fine si rassegna con un sospiro: sale sull’auto del «Corriere» e verso le nove del mattino detta quattro colonne di testo. «I bambini dormono distesi, fianco a fianco, assolutamente inverosimili… quieti e bene allineati, le manine congiunte al petto e gli abitini da spiaggia… La morte non si riesce a vederla. Essa ha toccato e poi se n’è andata via lasciandoli intatti… Dormono soli».

Quando il servizio è impaginato per l’edizione del pomeriggio, Afeltra scopre che da Milano sono partiti per la Liguria dei pullman con i familiari delle vittime. Serve una cronaca nuova. Mobilita carabinieri, vigili, Croce Rossa finché trovano Buzzati in una pensione dove s’era addormentato dopo la notte in bianco. Bisogna immaginarlo, Gaetanino, piccolo e concitato, lo sguardo febbrile e la voce acuta, mentre lo prega: «Dine, sta per arrivare l’autobus delle mamme. Prepara un altro pezzo…».

E mentre l’autore del Deserto dei Tartari sta già dettando, la comunicazione pare interrompersi, perché le madri giungono in quel preciso momento nella piazza dell’albergo e lo scrittore va loro incontro e le segue. Passano alcuni minuti, quindi torna al telefono e, stordito, ricostruisce come in trance la scena per gli stenografi. Afeltra, che ascolta in cuffia, ha un’illuminazione e ordina di verbalizzare parola per parola il dialogo spezzato da dolore ed emozione tra il giornale e Buzzati. «Dio, fa’ per misericordia che non si ripeta mai più l’orrore senza nome di Albenga. Una madre nella camera ardente non vede il suo figlioletto morto: ma lo vede morto 43 volte nello stesso istante strappato via dalle sue viscere». Quando il racconto arriva al termine, gli stenografi e Afeltra si asciugano gli occhi con il fazzoletto.

12 agosto 2025 (modifica il 12 agosto 2025 | 11:32)

12 agosto 2025 (modifica il 12 agosto 2025 | 11:32)

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