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Fulvio Montipò, Interpump: «Un polo da 105 acquisizioni per salvare la manifattura italiana»

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La determinazione è di chiudere un paio di acquisizioni di aziende, tra Italia ed estero, prima della fine dell’anno, portando così a 105 il numero delle imprese comprate dal 1996, l’anno della quotazione di Interpump. «L’idea è sempre stata di mettere assieme eccellenze della manifattura italiana e internazionale. C’è una rete di aziende meravigliosa in Italia , piccoli gioielli che sanno lottare in un mercato globale sempre più complesso. Ci sono tante aziende di qualità in vendita e un gruppo come il nostro può valorizzarle, perché l’Italia vince sui mercati solo se continua a vendere i prodotti di miglior qualità». Da Sant’Ilario d’Enza, a pochi chilometri da Reggio Emilia, nel cuore della meccanica tech, Interpump e il suo fondatore Fulvio Montipò sorvegliano le potenziali prede sul mercato mondiale dell’m&a. Lo spirito è sempre quello degli esordi: «La manifattura chiede rispetto e attenzione». 

I conti e il primato mondiale

L’imprenditore ha fondato Interpump 48 anni fa e poi l’ha costruita pezzo dopo pezzo fino a farne il numero uno al mondo nelle pompe ad alta pressione con il 50% del mercato mondiale e a diventare uno dei primi nella produzione di prese di forza, valvole, cilindri, tubi e riduttori nel campo dell’oleodinamica. Secondo gli analisti, il fatturato di Interpump nel 2025 chiuderà non lontano da circa 2,1 miliardi, con un margine operativo lordo sopra 460 milioni e un utile di circa 225. «Ma forse sui margini faremo meglio», dice Montipò. Circa l’85% circa del fatturato viene realizzato all’estero. Ma le radici restano salde in Italia dove l’azienda realizza attorno al 50% delle sue produzioni. «Nel 2020 avevamo ipotizzato di raddoppiare la taglia in cinque anni — sottolinea Montipò — e non ci siamo andati lontani».
Quante aziende valuta ogni mese?
«Circa 20-30. Mi affascinano tutte, alcune hanno storie incredibili di imprenditorialità e spesso cercano partner per accelerare la crescita. Cerchiamo piccoli tesori, alberelli da fare crescere. È una grande responsabilità collettiva quella di supportare l’industria nazionale. Da parte della politica ci vorrebbe maggiore consapevolezza sull’importanza del patrimonio manufatturiero del Paese e più sostegno. Il piano Industria 4.0 ha funzionato ed, ha contribuito a far aumentare gli investimenti. Ci sono anche gli imprenditori che non continuano ad aggiornare tecnologicamente i loro macchinari, ma sono una minoranza. Se non si continua ad investire in tecnologia si rischia di perdere il treno. C’è fermento sull’innovazione in Italia ma dobbiamo investire di più».
Tra tensioni geopolitiche e dazi Usa, come reagiscono i clienti?
«È venuta meno la programmazione. C’è un atteggiamento prudente da parte dei clienti che tagliano o rinviano i piani, spostano le consegne di tre mesi, salvo poi chiedere con urgenza di accelerare le consegne e un’impresa deve lavorare in condizioni sempre più difficili. Dopo la crisi del 2008 questo è il periodo più incerto che abbiamo visto. Ma il fatturato ha tenuto e la marginalità è stata eccellente. I dazi americani appesantiranno i costi sui prodotti in acciaio e alluminio di un circa 20% finale per i clienti americani».
Comprano lo stesso?
«I clienti Usa si lamentano, propongono di fare a metà sui rincari ma alla fine continuano ad acquistare. Noi non vendiamo prodotti status symbol ma componenti meccanici di qualità altissima per l’industria, che si confrontano con quelli prodotti in India e Cina. Alla fine scelgono la manifattura italiana. Solo a primavera prossima potremo avere una lettura più chiara sui dazi. Ma l’impatto per ora mi sembra limitato: realizziamo circa un quarto del fatturato negli Stati Uniti, pari a circa 550 milioni e più della metà è frutto di produzioni nel Paese».

Avete piani per rafforzare le fabbriche Usa?
«Cercheremo di capire se è ragionevole assemblare di più negli Usa quando saranno più chiare le regole. Ma non è scontato aumentare le produzioni lì: non si trova personale, le infrastrutture sono carenti, per trovare una fonderia vicino agli impianti si devono percorrere 1.500 chilometri, la deindustrializzazione che c’è stata nel Paese si sente. Una pompa fabbricata da zero negli Usa costerebbe il doppio, tanto vale pagare i dazi. Comunque, tutti i nostri grandi clienti pianificano con più difficoltà gli investimenti. Grandi gruppi che producono macchine agricole, camion o escavatori, i come John Deere, Kubota o Volvo, Renault, Scania o la tedesca Mann, sono tutti nella stessa situazione. Ma c’è anche da considerare l’impatto del rafforzamento dell’euro sulle altre monete. Quest’anno peserà per diverse decine di milioni».
Guardate a grandi aggregazioni?
«Continuerò a fare crescere l’azienda acquistando aziende di piccole e medie imprese che si integrano meglio. Poi se, in futuro dovesse passare un principe… Per ora preferisco trovare tanti “alberelli” da innestare nel nostro sistema. Abbiamo 116 società in Interpump, 88 fatturano fino a 25 milioni. Tutte sono cresciute da quando sono entrate nel nostro gruppo, anche nella marginalità. Forniamo supporto ma diamo grande autonomia ai manager e questo infonde grande energia. Ogni azienda acquistata è responsabile dei suoi risultati. Quando entrano nel sistema Interpump vediamo la loro attività esplodere e le aiutiamo a investire per svilupparsi Nel 2024 abbiamo investito 180 milioni solo su immobili e macchinari . L’anno scorso abbiamo acquistato Alfa Valvole, controllata italiana dell’americana Idex che realizzava già un margine operativo del 25% ed è ancora aumentato. È un mosaico complesso su cui teniamo un controllo costante: ogni mese arrivano i dati da tutto il mondo e valutiamo gli indicatori di tutte le aziende. La macchina gira, lo ha dimostrato anche negli scenari più complessi».
Come funziona una struttura così articolata?
«Abbiamo una rete di sei “governatori”, manager a cui sono affidati pacchetti di una ventina di aziende a testa. Coordinano, consigliano, suggeriscono. Al centro c’è l’attività di supervisione e controllo».
Ma chi sono i governatori?
«Manager appassionati e di buon senso, virtù fondamentali, non facili da trovare. Ma a Reggio Emilia ce ne sono tanti».
È sempre contento della Borsa?
«Il titolo non è super apprezzato, qui non siamo negli Stati Uniti dove per aziende come la nostra si arriva a valutazioni fino a 20 volte l’Ebitda, nel Regno Unito si arriva anche a 25 volte. Noi siamo valutati da otto a dieci volte ma la nostra redditività è di assoluta eccellenza. La Borsa ci ha dato grande visibilità e imposto l’esercizio della trasparenza che attrae tanti investitori globali ai quali abbiamo sempre garantito un ritorno di circa il 13% l’anno».
La Tip di Giovanni Tamburi è sempre presente nel capitale al suo fianco?
«Certo, mi sembra un investitore contento ed è anche un campione di correttezza. Abbiamo ancora tanti obiettivi da raggiungere insieme».

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13 ottobre 2025

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