
«Basta passare cinque minuti con lei. L’aggettivo che mi viene in mente è disarmante. Di solito chi vince così tanto è un tagliagole, un ossessivo, uno che non guarda in faccia nessuno. Lei, invece, guarda in faccia tutti, sorride e poi si rifugia in montagna».
Federico Buffa si abbandona su una poltroncina del centro congressi Stella Polare, Fiera Milano. Venerdì 21 novembre, alle ore 19, su Sky Sport Uno e in streaming su Now arriva un nuovo capitolo dei «Buffa Talks», le interviste attraverso le quali racconta i grandi personaggi in coppia col direttore di Sky Sport Federico Ferri. I due sono appena scesi dal palco, dove hanno conversato con Deborah Compagnoni, icona dello sci e oggi ambasciatrice di Milano-Cortina 2026.
Quanto lavoro c’è dietro?
«Tanto, forse troppo. Per raccontare Muhammad Alì ho letto dodici libri, di cui nove non editi in Italia, e non volevo farlo lo stesso. Poi il direttore mi ha convinto».
Perché non voleva?
«Si tratta di uno dei tre più grandi sportivi del Novecento, era troppo grande. Ho detto no due volte ma alla fine abbiamo girato tre puntate. Una a Louisville dove è nato, una a Miami dove è cresciuto pugilisticamente e una ad Atlanta per commemorare il famoso gesto della torcia olimpica, anche se c’era troppo vento e non l’abbiamo potuta fare».
Lo sportivo italiano più grande di tutti i tempi?
«Paolo Maldini. Un cavaliere templare prestato al calcio e alla contemporaneità. Inadatto alla mediazione, il che è stato un vantaggio per chi lo intervistava. Ha sempre detto quello che pensava».
Torniamo a Deborah Compagnoni e al suo urlo di dolore per il terribile infortunio alle Olimpiadi di Albertville del 1992. Lei ne ha mai cacciato uno così?
«Ho un rapporto complicato con l’ errore, lo detesto, soprattutto quando è causa di negligenza. Ho urlato quando per strada, a tarda notte, sono stato colto con uno tasso alcolemico superiore allo 0.50. Sapevo che mi avrebbero portato via la patente per sei mesi e così è stato. Però ho un bel rapporto con la letteratura delle grandi urla».
Il grido più forte?
«Quello di Cristiana Uderstadt alla morte di Gigi Meroni. Aveva dovuto sposare l’assistente alla regia di Vittorio De Sica perché i genitori giostrai a Torino erano estasiati all’idea che un grande del cinema potesse accompagnarsi alla loro meravigliosa figlia. Ma lei amava Meroni. E quando Gigi morì, stando al racconto di Gianpaolo Ormezzano, l’urlo che cacciò in ospedale fu qualcosa di disumano».
Deborah ha perso un fratello, travolto da una valanga. Il suo lutto più forte?
«La morte dei miei genitori ha inciso tanto, ma sapevo che un giorno se ne sarebbero andati. Il lutto diventa insormontabile quando a morire sono gli amici. Non ti abitui mai».
Sempre Deborah ha vissuto la fine di un matrimonio: il suo rapporto con l’amore?
«Le donne per me sono una passione inestinguibile ma, tranne un’eccezione, tutte le mie ex mi tirerebbero sotto con la macchina e passerebbero sopra il corpo in retromarcia».
Addirittura?
«Non devo essere stato un grande partner. Mai fedifrago ma evidentemente un po’ troppo concentrato su me stesso».
Figli?
«Che io sappia non ne ho. Forse è per quello che le mie ex mi tirerebbero sotto con la macchina… ho notato che la maggior parte di loro sono diventate madri con l’uomo successivo».
I giovani di oggi sono troppo pigri?
«Ho incontrato ragazzi cinquanta volte più avanti di noi alla loro età. Tenendo conto di quello che sanno e fanno, rispetto a noi sono di un altro pianeta. Alcuni però stanno sempre col cellulare in mano, hanno perso l’arte della relazione e della comunicazione. Questo è un problema».
Ha intervistato anche Sinner
«Un ragazzo molto educato. Si vede che ha una tigre dentro ma sta attento. Gli ho chiesto se si rende conto di quanto solleciti le ginocchia con quel tipo di tennis che fa, sempre in anticipo, sempre davanti alla palla. È come se avesse accettato un patto faustiano: forse non durerà vent’anni, ma vuole giocare dieci, dodici stagioni al massimo livello. E per farlo deve restare così: leggero, fluido, asciutto».
E’ vero che in America ha rischiato di morire?
«Da ragazzo, a Chicago, un pazzo mi voleva uccidere. Io non avevo fatto niente. Mi sono buttato all’ultimo momento dalla metropolitana. Ho preso una grande botta in testa su una banchina ma sono ancora qui».
Ha dei rimpianti?
«Non aver recitato in un film o in una commedia, avevo segnato anche questo in una lista scritta durante un comizio di Mentana».
Mentana?
«Quando sono entrato al liceo Classico Manzoni, Enrico frequentava l’ultimo anno. Era in corso il golpe in Cile, ci furono 20 giorni di assemblea. Lui era il più brillante degli speakers, però quanto parlava… e allora una volta mi misi a scrivere in un foglio tutto quello che avrei voluto fare nella vita».
La pensione?
«Fra un anno. Ho maturato il diritto ad andarci e nell’Italia di oggi va preso senza esitare. Viaggerò, ho visto troppa poca Africa Nera. E ridurrò un po’ la mia attività teatrale, anche se ho notato una cosa: gli attori se possono muoiono sul palcoscenico. Da quello non scendono mai».
19 novembre 2025
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