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El-Erian: «L’Ue si adatterà ai dazi, ma c’è il rischio della recessione. Ora subito le riforme Draghi»

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Molti definiscono l’intesa sui dazi tra Usa e Ue un compromesso al ribasso. Mohamed El-Erian, però, sostiene che probabilmente è il migliore accordo che Bruxelles potesse ottenere. «È in linea con quanto gli Stati Uniti hanno negoziato con altri Paesi. Riflette l’approccio transazionale dell’America nei rapporti internazionali e la volontà di correggere un ordine globale che percepisce come ingiusto L’Europa sarà in grado di adattarsi al nuovo regime tariffario, anche se a un certo costo», afferma l’economista presidente del Queens’ College di Cambridge e capo consigliere economico di Allianz, società madre di Pimco, il fondo di investimento che ha guidato per 7 anni. 

Ursula von der Leyen si è recata in Scozia, dove Trump giocava a golf. Lo giudica un danno per la dignità istituzionale dell’Ue e la sua leva negoziale?
«Non vedo un vero problema. Non è stata l’unica leader a recarsi in Scozia per incontrare Trump. L’alternativa — incorrere in tariffe molto più elevate — avrebbe portato a conseguenze peggiori per l’economia europea».

L’accordo fissa un livello tariffario base del 15%, ma esclude settori critici come acciaio e alluminio, centrali per l’industria europea. È stato un errore strategico o una concessione necessaria per evitare una guerra commerciale più ampia?
«Solo i negoziatori conoscono fino in fondo i dettagli e le motivazioni. Dobbiamo attendere maggiori informazioni, non solo su questo punto, ma anche su altri aspetti dell’accordo, come gli impegni europei sugli acquisti di beni statunitensi e gli investimenti».

Quali saranno le conseguenze economiche per l’Europa?
«Non bisogna mai sottovalutare l’importanza della riduzione dell’incertezza. Questo accordo rappresenta un passo significativo in tal senso. Spero che ora l’Europa possa concentrarsi sulle riforme capaci di sprigionare innovazione, produttività e crescita. A lungo termine, questi fattori incideranno molto più del regime tariffario americano sul benessere economico europeo».

Le tariffe possono davvero rilanciare la manifattura Usa?
«Resta da vedere quali obiettivi saranno raggiunti: aumento delle entrate, commercio più equo, rilocalizzazione industriale. Per ora l’obiettivo di generare entrate sembra centrato, ma resta da capire chi ne sopporta il costo. In particolare, chi sopporta il costo tra prezzi più alti per i consumatori americani, margini ridotti per i fornitori stranieri o maggiori costi per i partner commerciali degli Usa».

È rimasto sorpreso dal dato del Pil americano del secondo trimestre, +3%?
«È stato superiore alle aspettative, ma analizzando i dettagli, l’economia appare meno solida. Il tasso di crescita sui sei mesi è dell’1,3%».

L’Europa rischia una recessione?
«Sì, temo un rischio di recessione, nonostante un aumento della spesa pubblica per difesa e infrastrutture. È uno dei molti motivi per cui servono con urgenza riforme strutturali. Il rapporto redatto da Mario Draghi rappresenta una roadmap importante. Prima si inizierà ad attuarla, più alte saranno le probabilità di evitare una recessione».

La Bce fa bene ad essere attendista?

«Sì. A differenza della Federal Reserve, è già ben avviata nel ciclo di taglio dei tassi, con otto riduzioni. È un buon momento per una pausa. Al contrario, la Fed — che non ha ancora tagliato i tassi quest’anno — avrebbe dovuto farlo nella riunione di mercoledì. Invece ha preferito aspettare, al termine di una riunione molto divisa, con il primo dissenso di due governatori del board da oltre trent’anni».

Trump critica aspramente Jerome Powell. Il presidente Fed fa bene a resistere?
«In gioco c’è l’indipendenza delle banche centrali, fondamentale per buoni risultati economici. Senza indipendenza, il rischio è ottenere esiti molto peggiori. Va anche detto che, a differenza di Christine Lagarde alla Bce, Jerome Powell guida una banca centrale che negli ultimi anni ha commesso diversi errori di politica monetaria, ha subito tre gravi accuse di insider trading e una grave falla nella supervisione bancaria in California, tra le altre cose».

Trump ha danneggiato il «marchio America»?
«È troppo presto per dirlo. Bisogna capire se questo sarà ricordato come un “momento alla Reagan” — cioè un grande processo di ristrutturazione economica con aumento della produttività — oppure come un “momento alla Carter”, con l’America in stagflazione».

Dove vede il cambio del dollaro sull’euro nei prossimi mesi?
«È sempre difficile fare previsioni di breve periodo. Nel lungo termine, mi aspetto un indebolimento del dollaro rispetto a molte valute».

Nonostante i rischi crescenti — tensioni commerciali, instabilità fiscale, pressioni sulle banche centrali — i mercati continuano a salire. Come spiega questo scollamento?  
«I mercati azionari, in particolare quello americano, continuano a salire grazie alla fiducia nella solidità dei bilanci aziendali, nella crescita e nel potenziale di produttività trainato dall’innovazione. Questa fiducia si è tradotta in una corsa ai titoli tech e in una rinnovata scommessa sull’“eccezionalismo americano”, nonostante segnali tradizionali — come le valutazioni elevate, i bassi dividendi e l’oro ai massimi — suggeriscano cautela. Il problema è che questa dinamica di mercato si distacca da un’economia reale più fragile e disomogenea, dove crescono le disparità e i rischi macro. Il futuro dei mercati dipenderà dalla capacità di diffondere ampiamente le tecnologie già esistenti nell’economia. Ma restano due minacce significative: l’eccesso di debito pubblico, che potrebbe innescare tassi più alti e pressione sui conti, e la possibilità che il nuovo ordine commerciale degeneri in una guerra di dazi. È un contesto di grande volatilità indotta dalle politiche, che richiede vigilanza continua da parte degli investitori».

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1 agosto 2025

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