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Donald Trump e l’ossessione per il premio Nobel: la «competizione» con Obama e le lamentele social

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«Qualsiasi cosa io faccia, il Nobel per la Pace a me non lo daranno». Così Donald Trump si lamenta sulla sua piattaforma digitale, Truth Social. Una ossessione: quel comitato eletto dal parlamento della Norvegia si ostina a negargli il dovuto. Nell’ultimo sfogo il 47esimo presidente degli Stati Uniti elenca una lista di ragioni per cui il Nobel gli spetta. Alcune risalgono alla sua prima amministrazione, come gli Accordi di Abramo: nel 2020 portarono al riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di quattro Paesi arabi o islamici (Emirati, Bahrain, poi Marocco e Sudan). Altre «paci trumpiane» sono episodi più oscuri, dimenticati oppure opinabili: sostiene di aver sventato un conflitto tra Etiopia ed Egitto per la diga sul Nilo; nonché tra Serbia e Kosovo. Altri sono risultati recenti della diplomazia americana: la tregua negoziata fra India e Pakistan, dopo un attacco terroristico in Kashmir e una spirale di ritorsioni militari fra le due potenze; o l’accordo di venerdì scorso alla Casa Bianca tra i governi di Congo e Ruanda per porre fine al conflitto etnico.

Favorevoli e contrari

In certi casi il piagnisteo di Trump ha trovato orecchie amichevoli. Il governo pachistano conferma il suo ruolo nella fine delle ostilità e in effetti lo candida all’ambito riconoscimento a Oslo. Idem il presidente congolese Félix Tshisekedi. I maliziosi sospettano che stia facendo scuola il «metodo Rutte»: dopo che il segretario olandese della Nato ha usato lusinghe e piaggerie al vertice dell’Aia per accattivarsi il presidente americano.
In compenso c’è chi fa marcia indietro: il parlamentare ucraino che per primo aveva inaugurato il coro di candidature al Nobel, ci ha ripensato. È Oleksandr Merezhko, presiede la commissione Esteri al parlamento di Kiev. Aveva creduto alla promessa fatta da Trump di una «pace in 24 ore» fra Russia e Ucraina, e aveva proposto il premio subito dopo la rielezione del repubblicano. Ora si è stufato di aspettare. In quanto al Medio Oriente, non pullulano le voci favorevoli a Gaza. Gli Accordi di Abramo del 2020, è vero, aprirono una speranza di pacificazione per tutta l’area (dovevano preludere a un riconoscimento formale d’Israele da parte dell’Arabia Saudita). Poi però ci fu la strage di Hamas il 7 ottobre 2023; la ritorsione israeliana; una nuova catena di conflitti in tutta l’area. Oggi Trump può sostenere di aver contribuito alla cessazione delle ostilità almeno su un fronte, Israele-Iran. Per quanto? Inoltre la tragedia umanitaria di Gaza continua, e per molti palestinesi Trump ne è complice come lo era Biden. In generale, quelli che Trump elenca come suoi successi appaiono a volte precari, altre volte eventi «minori», rispetto ai due grandi conflitti che continuano malgrado le sue promesse

L’effetto Obama

Ma nella sua psicologia, perché questo premio scandinavo è così importante? L’ossessione per il Nobel ne nasconde altre. Una si chiama Barack Obama. Il figlio Donald Jr. forse ha tradito il pensiero del padre, dichiarando che quello dato a Obama nell’ottobre del 2009 fu un Nobel segnato dalla «affirmative action», cioè le regole (americane, non svedesi o norvegesi) che creavano agevolazioni e corsie preferenziali ai neri in certi settori. Obama è un chiodo fisso per i Trump, padre e figlio. La carriera politica del 47esimo presidente cominciò cavalcando la fake news secondo cui il suo primo predecessore sarebbe nato in Kenya, quindi un usurpatore (bisogna essere nati negli Usa per candidarsi alla Casa Bianca). Sul Nobel del 2009 peraltro la destra si appropria di critiche che vennero anche da altre sponde: Obama non mantenne la promessa di concludere la guerra in Afghanistan; né quella ancor più ambiziosa di un mondo denuclearizzato.

I predecessori

«Invidia presidenziale»: nella sua egomania, Trump si confronta con i tanti suoi predecessori che vinsero il premio. Prima di Obama, si comincia da Theodore Roosevelt, poi Woodrow Wilson, infine Jimmy Carter. Con il distacco degli storici, a tutti si possono trovare meriti e colpe. Roosevelt nel 1906 venne premiato come mediatore della guerra russo-giapponese, ma fu un presidente «imperiale» e si macchiò di una aggressione coloniale alle Filippine. Wilson non seppe mantenere in vita la Società delle Nazioni, antenata dell’Onu che avrebbe dovuto prevenire una seconda guerra mondiale. Carter ebbe giudizi autocritici sui propri sforzi di pace incompiuti in Medio Oriente, e l’assenza di una soluzione sullo Stato palestinese. Insomma, «perché a loro sì e a me no», sembra il grido di rancore e di ripicca dell’Invidioso-Capo. Qualcuno vorrebbe dargli come premio di consolazione una montagna-statua scolpita col suo volto sul Mount Rushmore, dove figurano quattro giganti della storia: Washington, Jefferson, Lincoln, Theodore Roosevelt. Tanti quanti i presidenti vincitori nella gara di Oslo.

30 giugno 2025

30 giugno 2025

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