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Doha, la tana d’oro dei jihadisti. Dalle «coccole» degli emiri al gelo per i negoziati in stallo

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DAL NOSTRO INVIATO

GERUSALEMME  Il Cairo, no: in quell’albergone sul Nilo s’era andati per anni, e inutilmente. Istanbul, nemmeno: ospitava già i negoziati per l’Ucraina. I sauditi, evitare: avevano troppi interessi dappertutto. Alla fine, non restava che Doha. Un campo per nulla neutro, ma forse adatto e gradito a tutti. Il piccolo e ricchissimo Qatar che era riuscito nella manutenzione dei sorrisi con gli americani e gl’israeliani, con gl’iraniani e i turchi. Per non dire di quel rapporto con Netanyahu, così speciale da trascinare il premier nello scandalo Qatargate, una complessa storia di soldi versati all’entourage di Bibi: proprio ieri, dopo un rinvio dovuto all’attentato di Gerusalemme, il primo ministro sarebbe dovuto comparire a processo come persona informata dei fatti, ma i fatti drammatici delle ultime ore l’hanno costretto all’ennesimo rimbalzo. E dunque: quando proposero a Netanyahu d’aprire in Qatar un canale negoziale su Gaza — erano passate solo poche settimane dal 7 ottobre —, lui non ci pensò molto e disse sì. Inaugurando un’infinita, sfinente trattativa che all’inizio sembrò funzionare. Partorendo il primo cessate il fuoco, col rilascio d’un centinaio d’ostaggi. E poi poco più.

Il bombardamento di ieri lo conferma: a Doha s’incrociano i destini di questa crisi. Perché l’emirato del Golfo vi ha recitato tutti i ruoli in tragedia: ha ospitato Hamas e insieme i colloqui perché Hamas s’arrendesse, ha riccamente finanziato i signori della Striscia e spesso col tacito consenso di Netanyahu, ha finanziato a lungo movimenti feroci come l’Isis e ad Al Udeid tiene lucida la più grande base americana in Medio Oriente, investe miliardi in Occidente e intanto possiede la meno occidentalista delle tv globali, Al Jazeera… Coi fondamentalisti di Hamas, il legame ha un inizio ben preciso. Perché in principio era la Siria di Bashar Assad, a dare case e bodyguard. Poi arrivò la Turchia di Recep Erdogan. Che mandava aiuti alla Striscia, sosteneva qualsiasi Flotilla, preferiva le barbe filoiraniane alle grisaglie dell’Autorità palestinese di Abu Mazen. Fuochi fatui. La Volpe di Damasco e il Sultano di Ankara non avevano nemmeno la metà dei riyal dell’Emiro. E Khaled Meshal aveva presto fiutato l’aria golpista della Primavera siriana. Il 23 ottobre 2012, così, stendendo tappeti rossi e lasciando garrire ovunque le bandiere qatarine, Sua Altezza Reale Hamad bin Khalifa al-Thani fu ricevuto solennemente a Gaza: il primo a venire, di tutto il mondo arabo. Il segnale che qualcosa era cambiato, col benestare dell’amministrazione Obama che stava aprendo all’Iran e aveva sempre avuto difficoltà a contattare Meshal, nella sua tana siriana. 

Piovvero soldi veri. Fiorirono leggende verosimili. A Doha, il comitato centrale del movimento islamico assemblò una potente macchina clientelare, da centinaia di milioni di dollari. Si tenne alla larga dai massacri del suo popolo, ridotto all’economia dei tunnel (gestiti da Hamas) e ora messo alla fame da Netanyahu. Soprattutto, sedette a quel tavolo: la lunga tovaglia candida, con rose bianche sempre fresche, dove incontrare i mediatori qatarini, egiziani, americani e talvolta — in modo assai più discreto — gli uomini del Mossad di David Barnea. Ville smeralde, conti in banca sardanapaleschi, jet privati, alberghi super-stellati, affari immobiliari: i capi di Gaza non si sono mai fatti mancare nulla e l’emiro li ha regolarmente coccolati. Anche se non sempre, e non fino alla fine. Col 7 ottobre, sotto qualche dishdasha s’è cominciato a fremere. E pure i qatarini han finito per porsi la domanda che già fu d’Assad, d’Erdogan e degli ayatollah: ma ne vale la pena? Lo scorso novembre, lo strappo più grande, quando Hamas oppone l’ennesimo rifiuto a un accordo per il cessate il fuoco e Doha è sul punto di ritirarsi dal negoziato. Volano parole grosse. E secondo gl’israeliani, l’emiro a un certo punto disse ai gazawi la frase fatale: «Qui, non siete più i benvenuti». Non si sa se sia vero. L’amicizia resta, e non si cancellano in una lite tredici anni di legame d’acciaio. Per non dire del non detto, dei conti segreti, dei canali di finanziamento rimasti aperti. Doha non poteva non infuriarsi. Ma per la violazione della sua sovranità: per Hamas, chi lo sa.

9 settembre 2025

9 settembre 2025

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