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Dino Campana fu la svolta: le due vite di Sebastiano Vassalli

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Nessuno scrittore si è mai dissociato da sé stesso tanto drasticamente quanto Sebastiano Vassalli. Nato nel 1941 a Genova, Vassalli ha vissuto due vite di scrittore. La prima arriva fino al 1983, la seconda va dal 1984 fino alla morte, avvenuta a Casale Monferrato il 26 luglio 2015. A fare da spartiacque e da punto di connessione, come una sorta di Statua della Libertà, che saluta il nuovo approdo, la figura di Dino Campana, protagonista de
La notte della cometa
. Il secondo Vassalli parlava malvolentieri del primo Vassalli. Nel bel libro-intervista firmato con Giovanni Tesio, definisce più volte «demenziali» quegli anni, demenziali le cose che scriveva a quell’epoca e demenziali le ragioni per cui le scriveva. Ne aveva il ricordo di un inevitabile errore di gioventù, uno scotto (forse necessario) pagato alla propria generazione. Diceva pure di essere nato scrittore a quarant’anni, con il romanzo su Campana e di considerare il Vassalli precedente solo un letterato. «È un passaggio che non avviene spesso e per forza», diceva. Poteva accadere anche il contrario: secondo lui, per esempio, il percorso opposto l’aveva fatto Calvino, da scrittore («uno scrittore che io amo moltissimo») a letterato. Il letterato è colui il quale si perde nel formalismo, «un modo per esprimere l’impossibilità di dire». Era stato questo il difetto imperdonabile della neoavanguardia, entro la quale Vassalli aveva esordito. Non Vassalli, ma
L’Antivassalli
, titolo del saggio di Eugenio Gazzola (Le Lettere), che ha il pregio di indagare sulla prima vita dello scrittore, decisamente meno nota della seconda, quella del romanzo storico, ricca di successi (nel 1990 il Premio Strega con
La
chimera
) e capace di trovare lettori numerosi.

La prima fase inquieta e ribelle è coerente con la precarietà in cui si trova a vivere il giovane Vassalli, cresciuto in un contesto familiare sbandato (il padre che lasciò la casa era sempre rimasto per lui «il merda») e presto affidato alle zie paterne di Novara prima di cominciare a insegnare nelle scuole medie e a frequentare, allo stesso tempo, l’università a Milano. Si laurea nel 1967 con Cesare Musatti presentando una tesi su arte contemporanea e psicoanalisi che risulta indigesta e approssimativa al correlatore Gillo Dorfles. Gazzola ci accompagna dentro i tempestosi anni Sessanta e Settanta, dove troviamo un Vassalli furibondo avanguardista-movimentista: pittore, poeta visivo, infine artista «in cerca di un romanzo come si cerca una giacca su misura» (così Gazzola). Lo incontriamo, durante l’università, in mostra con una personale alla Galleria Il Cavallino di Venezia nel 1964 con dipinti-scene-fumetti colmi di oggetti e simboli del consumo e con tele che rappresentano serie di sassi. L’anno dopo è al Naviglio di Milano, presentato da Edoardo Sanguineti.

Ammesso nel Gruppo 63 come artista, virerà presto verso la scrittura o, comunque, in un’area di incrocio tra immagine e parola, come scrive Gazzola. È in quel crocevia che si appassiona alla poesia visiva, partecipando con manifesti murali eversivi nel 1967 all’happening internazionale «Parole sui muri» di Fiumalbo, sull’Appennino modenese: qui vediamo il giovane Sebastiano in veste di fotografo nottetempo impegnato in uno scontro verbale con un vicequestore inviperito per essere stato insistentemente ripreso e in un’altra notte «insonne e nervosa» lo troviamo protagonista, con l’amico artista Ugo Locatelli, di atti vandalici contro le opere di altri artisti. Gazzola descrive il clima di ostilità della pacifica popolazione montana e dei non pochi villeggianti di fronte a quei gruppi di capelloni (e comunisti) che andavano imbrattando le case e le strade del paesino tosco-emiliano. È in quell’atmosfera di fermentante guerriglia artistica che Sebastiano si avvicina, senza amarli particolarmente, ai poeti emiliani della neoavanguardia: l’«inconcludente» Adriano Spatola, l’«opportunista» Corrado Costa, Giulia Niccolai, Patrizia Vicinelli eccetera. Insieme condividendo esperienze analoghe con artisti come Claudio Parmiggiani, Carlo Cremaschi, Giuliano Della Casa, lo stesso Locatelli.

Il suo primo testo visivo, del 1968, si intitola Nel
labirinto ed è un «collage freddo» (sottotitolo) che giustappone frammenti di testo e di immagini ritagliati dai giornali. Nello stesso anno, sotto le ali di Sanguineti e di Giorgio Manganelli, esce nella collana della Ricerca letteraria Einaudi il suo primo romanzo, Narcisso. È Manganelli a parlare, nella paginetta che chiude il libro, di una «euforica bisboccia verbale, sconnessa e avvampante, una sorta di furibonda, drammatica, enigmatica festa». L’ingresso in via Biancamano è l’inizio di una quarantennale fedeltà all’Einaudi, la cui seconda tappa è Tempo
di
màssacro, uscito nel 1970. Prima però viene, in copie numerate presso l’editore romano Trevi, una raccoltina poetica intitolata Disfaso, dal latino «disfacere», cioè dissolvere. Dissolvere l’ordine delle parole, disarticolare il linguaggio: «la baciai per bella che mai, si alternava / l’avvenire era un finalmente / culminante con la vampa pegnato» sembra anticipare il (geniale) poeta Marius Marenco, ma è puro «anti-Vassalli».

Sono anni in cui Sebastiano non sta mai fermo. Anche per questo è Vassalli prima di Vassalli: tanto il secondo sarà sedentario, sistematico e concentrato, tanto il primo si presenta dissipativo, manipolatore, imprevedibile ed eccentrico. Tra il 1969 e il 1972 si dedica tra l’altro alla rivista «Ant Ed», che fonda a Novara con critici (Giorgio Bàrberi Squarotti e Marziano Guglielminetti), poeti (Cesare Greppi), artisti come William Xerra e Locatelli, che sarà suo sodale e sparring partner. I quattro numeri di «Ant Ed» sono composti da un solo grande foglio ripiegato in dieci parti e non rilegato, programmaticamente «scandaloso» nel «rifiuto totale e volontario» di ogni tradizione. «Poco mi importa al momento — scrive Vassalli nell’editoriale — se ci si muove in modo violento verso il futuro o si torna al geroglifico e al graffito». C’è di tutto, poesie lineari, collage, poesie visive, riproduzione di opere pittoriche, grafiche e scultoree, elaborazioni critiche e teoriche, frammenti in prosa. Nasceranno anche dei «quaderni» di Ant Ed edizioni, tutto autoprodotto in casa a Novara. Nel 1975 si passa a una nuova rivista, «Pianura», a Ivrea in collaborazione con Tomaso Kemeny, Gianni Scalia, Greppi, Antonio Prete e altri.

La frenesia è almeno pari all’inquietudine del giovane che va cercando sé stesso per tappe e ripensamenti in cui Gazzola intravede due linee pressoché autonome: da una parte il romanzo sperimentale che muta verso il comico e la parodia del proprio tempo; dall’altra la scrittura in versi che tende all’invettiva contro la storia e la letteratura.

Pochi possono sapere, allora, che dallo «sperimentalismo nomade» Vassalli si sta progressivamente avviando in direzione di una «narrazione stanziale» che dall’orizzonte dello spazio, tipico delle dinamiche avanguardistiche, trasloca verso la dimensione temporale del romanzo. Ecco, nella fase di passaggio, i romanzi della «trilogia dell’abbandono»: L’arrivo della lozione (1976), A
bitare
il vento
(1980) e Mareblù (1982), contemporanei alle ultime raccolte poetiche sperimentali consegnate a un piccolo editore bergamasco, Il Bagatto, e seguite dal «gran ballo a corte» di Arkadia (1983), pamphlet dissacrante contro le carriere, i caratteri, le confraternite letterarie degli «impoeti d’Italia». Una decisa scelta di autoesclusione per ripartire dal nulla (o quasi). «Fu così — dirà Vassalli — che diventai scrittore… dopo morto, quando mi accorsi che non ero più nessuno, e che non essendo più nessuno potevo (finalmente!) essere chiunque». Siamo nei pressi del Vassalli rinato dalle proprie ceneri, il biografo di Campana, che racconterà come «babbo matto» e anche come suo alter ego, incompreso, zingaro, dannato, emarginato dalla società delle lettere.

Ma torniamo a Tempo
di
màssacro, lo pseudomanuale pseudoerudito sulla sopraffazione collettiva e individuale, sulla violenza del potere, sulla comunità umana di massacratori in potenza: Vassalli ci crede al punto da ipotizzarne un’adozione scolastica. Ci torniamo giusto per raccontare un episodio poco noto che mette a confronto-scontro Vassalli con Luca Ronconi, fresco del successo internazionale dell’Orlando furioso, rappresentato alle Halles di Parigi. Il libro, promosso in Einaudi da Calvino, piace molto al regista, che chiama Vassalli per proporgli di scrivere il copione del suo prossimo spettacolo. Ronconi apprezza la lingua comica, ricca di potenzialità drammatiche, «l’osservazione in trasparenza del funzionamento di un tale sofisticatissimo apparato macchinico di eliminazione dell’uomo, cioè la rivelazione del màssacrabile» (parole di Gazzola). Ne nasce un testo, L’uccello
di
Dio, che però non piace a Ronconi, nonostante le premesse, gli scambi, gli incontri ripetuti.

Se il giovane Vassalli certamente non ha esperienza teatrale, Ronconi sta probabilmente maturando già ben chiara una sua idea del lavoro, non condivisa e forse non compresa dallo scrittore. Sicché il progetto naufraga, come testimoniano un paio di documenti epistolari. Agli inizi del 1970, Ronconi scrive a Vassalli che il copione fa trasparire un «discorso “d’autore” che snatura il senso di tutta l’operazione» e senza mezzi termini gli comunica che quello stesso discorso, «così rigoroso, sul cesarismo, non ha nessuna tenuta teatrale». Il regista si sarebbe dunque rivolto al poeta e traduttore anglo-argentino Rodolfo Juan Wilcock, mentre Sebastiano decide di realizzare in proprio L’uccello
di
Dio. Nell’autunno 1970, esprime infatti a Locatelli la sua scelta di allestire lo spettacolo da solo a Teramo, aggiungendo il sospetto che «hanno voluto (come al solito) fregarmi». Timore che verrà ribadito più in là («so ormai per esperienza diretta che in itaglia tutti cercano di fregare tutto a tutti, persino le idee…»).

Il proposito viene portato avanti, in vista del febbraio successivo, con gran fatica, ma con crescente ambizione e persino con un sogno di grandezza pieno di speranze, elaborato in combutta con l’amico Locatelli («Si tratta di far diventare molto più numerosi, organizzare, dilatare su scala cosmica e sviluppare teatralmente i tuoi ideogrammi» (all’opera grafica di Locatelli, Sebastiano aveva collaborato con un testo). Il copione dell’Uccello si è perso, ma rimane, oltre al pieghevole di sala, la testimonianza dei protagonisti dello spettacolo, che da Teramo fu replicato a Roma e a Milano. Il regista Romano Rocchi, che partecipò con la sua compagnia amatoriale, ricordava un’«operazione teatrale» macchinosa e costosa che «riguardava grosso modo la storia del Terzo Reich», con la «costruzione di una casa a due piani dentro il teatro, occupando sia il palcoscenico che la platea»: tra scatoloni, botole e tendaggi si svolgevano le scene recitate da una quindicina di attori, mentre il pubblico «entrava, veniva interrogato, scriveva…».

La lettera di risposta a Ronconi era già partita e non faceva sconti, rivendicando le proprie idee: «Mi duole ricordarti che l’idea dello spettacolo storico, e il preciso sistema combinatorio per cui la struttura in mezzo al teatro potesse diventare macchina di uno spettacolo storico te li ho dati io: che la ragione dell’azione scenica l’ho ideata io, così come ho scelto tutto il materiale su cui in seguito hai lavorato (…). Ma tu non hai saputo resistere alla tentazione di fregarmi (economicamente e moralmente) e, appena hai avuto in mano quel materiale, hai pensato che lo spettacolo lo avresti allestito da solo». Partendo dallo stesso materiale, precisa Vassalli, verranno fuori due spettacoli completamente diversi: «Il tuo sarà uno spettacolo grandioso e fumoso, e il pubblico delle capitali lo accoglierà trionfalmente; il mio sarà quello che sarà, passerà sotto silenzio o verrà appena menzionato come una rappresentazione di “dilettanti”. Ma anche questo, tu lo sai bene, è teatro». A leggere oggi le reazioni della critica (Franco Quadri, Elio Pagliarani, Italo Moscati e altri), il fallimento artistico fu quasi pieno. Ma almeno l’obiettivo di impedire a Ronconi di «rubargli» l’idea andò a segno.

Tutta questa vicenda convulsa e inquieta del primo Vassalli andrebbe confrontata con la storia di
Dux
, la «divagazione fantastica» su Giacomo Casanova che Vassalli pubblicò nel 2002 e che adesso viene riproposta da Interlinea, la casa editrice di Roberto Cicala. Il quale Cicala aggiunge un’Appendice e una ricostruzione dell’interesse che Vassalli aveva maturato negli anni verso il carattere nazionale (mendace) dell’italiano. Il secondo Vassalli in piena attività, memore, attraverso Casanova, del fatto che, come scrisse a proposito dell’avventuriero veneziano: «gli inizi delle cose umane sono spesso disastrosi». I suoi inizi non furono disastrosi, ma certamente neanche trionfali

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Il profilo

Sebastiano Vassalli, a lungo collaboratore del «Corriere», nacque a Genova il 25 ottobre 1941 e morì a Casale Monferrato (Alessandria) il 26 luglio 2015. Dopo un’intensa militanza avanguardistica, quando fu anche pittore e poeta visivo, approdò a una narrazione più tradizionale, civilmente risentita, intesa a rintracciare alcuni caratteri dell’identità nazionale. Tra i titoli: La notte della cometa.
Il romanzo di Dino Campana (1984) e La chimera (1990, vincitore dello Strega), entrambi Einaudi
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22 luglio 2025 (modifica il 22 luglio 2025 | 19:00)

22 luglio 2025 (modifica il 22 luglio 2025 | 19:00)

Fonte Originale