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Il primo elzeviro Dino Buzzati lo scrisse a ventisei anni, su volere dell’allora direttore del «Corriere della Sera», Aldo Borelli che, dopo aver letto il suo romanzo di debutto, Bàrnabo delle montagne, decise di affidarglielo, incurante delle vivaci proteste di alcuni anziani colleghi. L’ultimo a sessantacinque anni, apparso sulle pagine del quotidiano di via Solferino il giorno stesso del suo ingresso in clinica, un (inconsapevole?) estremo saluto ai suoi lettori fedeli e appassionati e al suo e al mondo, in costante bilico tra fantasia e realtà. Nelle (quasi) quattro decadi che separano questi due momenti, l’elzeviro è stato per l’autore del Deserto dei Tartari un compagno fedele, un privilegiato mezzo di comunicazione, un genere amato e praticato con passione, uno specchio di sé stesso e della propria poetica, una sintesi perfetta di giornalismo e letteratura.
Lo dimostra l’antologia Cronache fantastiche, in libreria in questi giorni per Mondadori, che ne raccoglie più di cento, pubblicati dal 1934 al 1971, oltre la metà dei quali mai più apparsi da quando uscirono sulle pagine del «Corriere della Sera» e del «Corriere d’Informazione»; lo conferma l’intera produzione letteraria di Buzzati, che a fianco di soli cinque romanzi annovera centinaia di racconti, spesso nati proprio come elzeviri e poi migrati dalla Terza pagina alle sue numerose raccolte di novelle.
Se è vero quel che diceva Eugenio Montale, che in Dino Buzzati la letteratura rispetto al giornalismo era lo stesso guanto rovesciato — a voler sottolineare che non c’erano separazioni tra l’una e l’altro, ma continui sconfinamenti e reciproche contaminazioni — è innegabile che sia stata la cronaca ad alimentare e influenzare la sua narrativa. A plasmare il «suo mondo». I fatti di ordinaria criminalità che si trovava a raccontare e il linguaggio semplice e diretto con cui ne doveva scrivere incisero sensibilmente sulla sua formazione, fino a creare con la letteratura (ma anche con la pittura, la drammaturgia, la poesia…) un continuo interscambio. Così, se spesso da cronista egli prendeva i fatti e i fattacci dell’esistenza e li trasformava in racconti, nei libri di narrativa seguiva il procedimento opposto e trasformava i racconti in cronache. Fantastiche, appunto. Molte delle quali non sarebbero sfigurate tra le «ultimissime» del giornale anziché sulla Terza pagina.
E il motore più indicato ad accenderle e il contenitore più adatto a ospitarle fu proprio l’elzeviro che ha sempre avuto forti legami con la conformazione stessa del giornale: la lunghezza, mai superiore alle due colonne; l’impaginazione, non troppo distante da quella di una notizia classica; la condivisione della pagina con altri fatti, di società e cultura; la presenza quotidiana, che imponeva a ogni autore un rigoroso rispetto della data di consegna; la sua lettura, che avveniva tra una notizia di politica e una di sport; e la sua vita, che era di un giorno soltanto, esaurendosi quando il foglio che lo ospitava finiva nella spazzatura per fare posto a quello nuovo.
Dunque una forma narrativa perfetta per Dino Buzzati che aveva nel proprio Dna la misura e l’architettura dell’articolo; un genere tagliato su misura per lui perché gli permetteva di praticare contemporaneamente giornalismo e letteratura; di partire da «una scheggia di realtà», per dirla con Giulio Nascimbeni, e costruire una storia (le cui prime righe assomigliano infatti più a un attacco giornalistico che a un incipit letterario). «D’altra parte» scrive, «non sono forse strani, e pieni di cose stranissime, i tempi che viviamo? Proprio in questi anni la realtà ha superato, e ogni giorno supera, ciò che fino a ieri sarebbe parso inverosimile follia».
Attenzione, però: ciò che caratterizza le «cronache fantastiche» è che al momento opportuno Buzzati si sa staccare dalla notizia per proiettare la vicenda in un «altro mondo» — un mondo parallelo che la sua penna svela tagliando, come un bisturi, il velo che separa la realtà dal fantastico — e trasformare quel racconto in un racconto puro.
Così può inventare un quiz «infernale» partendo dalla trasmissione Lascia o raddoppia?; può, cinquant’anni dopo la morte, fare risvegliare Giuseppe Verdi nel letto della sua camera d’albergo mandando nel panico il direttore; può immaginare Nikita Kruscev che regala a sua nipote una grande matrioska di legno la cui progressiva apertura viene sottolineata da tuoni misteriosi e sinistri; può raccontare la morte di Molotov ispirandosi alla canzone Vecchio frack di Modugno; può, ancora, rivelare i pensieri intimi di un serial killer, i viscidi sotterfugi di un impiegato per screditare i suoi colleghi d’ufficio, l’esistenza di una Venezia parallela nella quale ci si può ritrovare come trasportati da una macchina del tempo. Può, infine, inventare racconti con riferimenti — espliciti o velati — alla politica mondiale, soprattutto alla Guerra fredda e al comunismo, ma anche indagare le classiche paure dell’uomo — dell’ignoto, delle malattie, della perdita della grande occasione, della solitudine, del giudizio nel tribunale dell’aldilà.
Nonostante avesse con il «Corriere della Sera» un accordo per scrivere due/tre elzeviri al mese, sono pochi quelli meno riusciti, risolti con il mestiere. Non vale dunque per Buzzati ciò che scrisse Tommaso Landolfi a proposito di quelli che chiamava «innocenti raccontini»: «Si potrà andare avanti per un certo tempo, ma poi essi dovranno per forza diventare via via più fiacchi, e dovrà addirittura inaridirsi la fonte». C’è, è vero, nelle storie di Buzzati, il ripetersi quasi ossessivo di alcuni temi, quelli classici della sua poetica — l’attesa, il precipitare del tempo, la morte… (non a caso diceva: «Ogni scrittore, ogni artista anzi, ha da dire una sola cosa, sulla quale fatalmente torna a rimestare tutta la vita»); ma la grandezza di Buzzati sta nell’averle sviluppate in maniera sempre diversa e originale, mettendovi tutto sé stesso affinché non si fermassero alla semplice narrazione di una storia, ma ponessero il lettore di fronte agli aspetti più oscuri dell’esistenza, lo ammonissero, lo invitassero a non fidarsi delle apparenze. Lo spaventassero. E questo ha permesso a ognuno di essi di mantenere nel tempo una forza autonoma, slegandosi dalle pagine del giornale sulle quali — e per le quali — era nato.
Perché quelli di Dino Buzzati non sono racconti di fantascienza: sono racconti dell’oggi, che rappresentano la realtà contemporanea. In quanto è lì, nella banalità del quotidiano, nelle pieghe della routine che si nascondono il mistero, il dramma, l’imprevisto, la morte. Lì che si annida l’ignoto e si apre quell’abisso che da un momento all’altro potrebbe inghiottirci e portarci via, rovesciando per sempre la nostra vita.
L’autore
La nuova edizione delle Cronache fantastiche di Dino Buzzati, a cura di Lorenzo Viganò, è pubblicata da Mondadori (pp. 648, euro 24). Raccoglie più di cento elzeviri, pubblicati dal 1934 al 1971, oltre la metà dei quali mai più apparsi da quando uscirono sulle pagine del «Corriere della Sera» e del «Corriere d’Informazione». Dino Buzzati (Belluno, 1906 – Milano, 1972) entrò al «Corriere» nel 1928 come praticante e fu, negli anni, cronista, redattore e infine inviato speciale. Una trasposizione letteraria del suo lavoro nelle stanze di via Solferino è il romanzo Il deserto dei Tartari (1940)
25 dicembre 2024 (modifica il 25 dicembre 2024 | 16:22)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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