
«So perfettamente che da me nessuno se l’aspetta. Ma visto che ho avuto parecchio tempo a disposizione per studiare la riforma della giustizia del governo Meloni, posso affermare con grandissima serenità interiore che al referendum della prossima primavera voterò convintamente per il No. Anche se questo mi porterà a stare dalla stessa parte di qualche pubblico ministero che qualche secolo fa mi ha indagato ingiustamente». La voce flebile e il tono combattivo, figli dell’ennesima convalescenza di una vita passata — come dice lui — «a giocare e vincere partite contro la morte», sono inconfondibili. Perché se non lo fossero, inconfondibili, si farebbe davvero fatica a pensare che Paolo Cirino Pomicino, protagonista assoluto della politica italiana a cavallo tra i due millenni e garantista inossidabile, possa presentarsi alle urne del referendum sulla giustizia scegliendo la stessa opzione dell’Associazione nazionale magistrati, e quindi il No.
Pluri inquisito e pluri indagato a partire da Mani Pulite — quando ammise in fase istruttoria di aver violato la legge sul finanziamento pubblico dei partiti e patteggiò una condanna per la maxitangente Enimont — l’ex ministro del Bilancio è stato coinvolto in un numero spropositato di inchieste e in ben quarantadue processi. Eppure, scandisce, «non ho difficoltà a votare No alla riforma sulla separazione delle carriere, anche se per ragioni diverse da quelle di un pezzo della magistratura e della politica. Primo, per il numero percentualmente irrisorio di magistrati che passano dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa. Secondo, perché se sono stato prosciolto in quasi tutti i processi a mio carico, evidentemente in Italia c’è una magistratura giudicante che fa il suo dovere e non quello che dicono i colleghi inquirenti. Ma soprattutto, terzo motivo, perché penso che la riforma del governo Meloni finisca per accrescere, e non diminuire, il potere a volte senza limiti dei pubblici ministeri: con un organo di autogoverno tutto per loro, possono fare quello davvero che vogliono, senza contrappesi».
L’adesione di Pomicino alla campagna per il No regala un sequel inimmaginabile, almeno fino a oggi, dell’eterna vicenda di Tangentopoli. ‘O ministro e Antonio Di Pietro, che il primo dicembre 1993 furono protagonisti di uno dei più celebri interrogatori del processo Cusani, si ritrovano a trentadue anni di distanza a incrociare le sciabole. Ma hanno invertito le squadre di appartenenza: Di Pietro, che fa parte del comitato per il Sì alla separazione delle carriere, sta contro la stragrande maggioranza dei pm e al fianco, tanto per dirne una, della giornalista Tiziana Maiolo, all’epoca inflessibile fustigatrice del pool di Mani Pulite; Pomicino si accomoda nella squadra opposta, contro la riforma costituzionale del governo Meloni, al fianco di molti pubblici ministeri che ha conosciuto nelle vesti di indagato o di imputato, compreso quel Gherardo Colombo che ai tempi di Tangentopoli lavorava fianco a fianco con Di Pietro.
Canovacci invertiti, storie capovolte, finali inimmaginabili, sempre se di finale si può parlare. E, soprattutto, destini incrociati. Alla fine della Prima Repubblica, quando la condanna nel processo Enimont era costata a Pomicino l’uscita di scena dal proscenio della politica (sarebbe rientrato dalla finestra, una decina di anni dopo, in piena Seconda Repubblica), Pomicino si fece promettere da Di Pietro che, «dopo che mi hai indagato di sotto e di sopra», al momento opportuno «farai tu l’orazione funebre al mio funerale».
E una volta che sembrava davvero che l’ex ministro del Bilancio non sopravvivesse alle bizze di un cuore ballerino fin dal lontano 1985, l’ex pm era corso al suo capezzale al Policlinico Gemelli convinto che quella fosse l’ultima volta che si vedevano. Si ritrovano ancora oggi, sempre separati, come le carriere dei magistrati, anzi di più. «Ma sull’orazione funebre — dice Pomicino — ho cambiato idea. Vorrei che la facesse Corrado Augias, non più Tonino».
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3 novembre 2025
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