
Può sembrare inutile la contabilità dei morti in carcere per suicidio, omicidio, morte «naturale». Il ministero la fornisce una volta all’anno, scomputando chi è morto in ospedale dopo un tentativo di togliersi la vita o i casi «sospetti». Altre associazioni di volontari – su tutte Antigone e Ristretti Orizzonti, che ci hanno aiutato a raccogliere queste storie – provano a stare dietro al conteggio: al 30 giugno i suicidi erano 45, ma ogni giorno ne arrivano altri. Gli ultimi: Parma, Aosta, Roma. Il record è stato nel 2024, ma non è detto che quest’anno non si possa far peggio. In cella ci si uccide con quel che si trova. Un lenzuolo, i lacci delle scarpe. E ci si uccide per disperazione. Perché dentro non ci sono prospettive, non c’è vita, non c’è lavoro, non c’è niente. E fuori, spesso, li aspetta l’incubo di dover ricominciare, perché lo stigma di criminale e l’assenza di un sistema di welfare rende difficile il reinserimento. Oltre la contabilità, ci sono loro. Persone che hanno sbagliato (di alcune non si sa, perché erano in custodia cautelare), ma che avevano un’esistenza, mogli, genitori, figli. Persone che si trovano dentro celle sovraffollate, in condizioni disumane. Di seguito raccontiamo tre storie di detenuti e una di un agente di polizia penitenziaria: anche loro vivono nello stesso inferno. Se ne sono uccisi sette nel 2024 e due quest’anno. «Gli agenti — ci dice Gennarino De Fazio della Uilpa — hanno carichi di lavoro e di coscienza che non si possono nemmeno immaginare».
Il ladro di 55 euro troppo «pericoloso» per essere liberato
Un giorno, il 13 dicembre 2024, Salvatore, che è un dipendente dell’Atm ossessionato dal gioco e oppresso dai debiti e dall’alcol, avvicina un uomo in un cortile di Milano e gli punta un coltellino, chiedendogli 20 euro. Quando l’uomo gli dice che ha 55 euro, risponde che va bene e li prende. Lo arrestano pochi minuti dopo. A processo, viene condannato a 3 anni, anche se i soldi li restituisce tutti e anzi dà mille euro, come risarcimento. Finisce nel carcere di Vigevano, lui che era di Polistena. Viveva ancora in Calabria quando i medici di Taurianova gli diagnosticarono «un umore depresso e fluttuante». E si capisce, visto che a causa della ludopatia si era fatto pignorare lo stipendio e sottrarre la casa. Se ne andava in giro a dire che i suoi guai erano dovuti a un «massaggio al piede». Quando entra a Vigevano, il suo avvocato Rocco Domenico Ceravolo si preoccupa, perché Salvatore ha un umore fluttuante e ha già provato a uccidersi. Per questo chiede che sia affidato ai servizi sociali, ma il giudice di sorveglianza dice che la permanenza in cella si deve protrarre perché l’uomo è pericoloso. Non si protrae troppo a lungo, solo qualche giorno, perché Salvatore si impicca. Bastava un po’ di buon senso, dice l’avvocato, per salvarlo. Bastava farlo uscire, dice, invece di inventarsi pericoli immaginari per un poveraccio che aveva rubato l’equivalente di un pieno di benzina, di una cena, nella città dei milionari e aveva restituito tutto, con gli interessi.
Al lavoro da 36 anni a Porto Azzurro. Poi l’agente crolla
La sera prima, racconta la figlia Marika, si rideva, si giocava a carte. Donato viveva con la famiglia nell’alloggio demaniale della cittadella di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, ed era un sovrintendente. Faceva l’agente dal 1989. «Può fare effetto, a chi viene da fuori, vivere in un carcere. Ma a noi sembra normale abitare lì, a pochi metri dalle celle. Era un lavoro che piaceva molto a babbo. Gli dicevamo sempre, scherzando, che sembrava quasi che noi venissimo dopo, perché prima c’era sempre la prigione. Però il suo era un lavoro pesante, logorante. Ogni tanto ci raccontava di quello che succedeva dentro, di quei detenuti che aspettavano che loro, le guardie, facessero l’ultimo giro di controllo, e poi si impiccavano». Tra un anno e mezzo Donato sarebbe andato in pensione, ma da qualche tempo non stava bene. Era caduto, lui dice per un calo di pressione. Si era fatto male alla schiena e aveva le caviglie gonfie, così era in malattia. Il 16 maggio, racconta Marika con una voce che cerca di non tremare, «cominciavano le belle giornate e con mia mamma siamo uscite a far la spesa». Non si erano accorte di quello che girava nella testa di Donato. E invece qualcosa girava, anche se giocava a carte e rideva. Quando hanno aperto la porta di casa e hanno posato i sacchetti sul tavolo, lo hanno visto. Era appeso con una corda alla porta della cucina. Sul tavolo c’era una lettera. Dentro, tutta la disperazione di un uomo che amava il suo lavoro ma non ce la faceva più.
Nessuno gli fa visita. È impossibile immaginare il futuro
Da almeno un anno non riceveva visite. Nessun colloquio, nessuna telefonata. Era solo, Andrea. L’unico ad andarlo a trovare, a Regina Coeli, era il suo avvocato, Raffaele Magliaro: «Era in carcere per atti di persecuzione nei confronti della compagna. Quando l’ho conosciuto era un tipo fumantino, irrequieto. Ma dentro era diventato un altro. Un anno fa c’era stata una rivolta, lui si era chiuso in cella. Mai un richiamo, mai un problema». Le cose si stavano mettendo bene per Andrea, 52 anni. Diverse assoluzioni e il sì alla liberazione anticipata, 135 giorni in meno: sarebbe uscito tra meno di un anno. «Era felicissimo, continuava a ringraziarmi», dice l’avvocato. Una volta fuori, avrebbe avuto la sorveglianza speciale: obbligo di trovarsi una casa, un lavoro, niente frequentazioni pericolose. Ma c’era un problema: non aveva documenti. «Era irreperibile, non avendo un domicilio. Ma senza documenti un lavoro non lo trovi. E così mi ero attivato con la direzione». All’improvviso Andrea viene spostato a Frosinone: «Ho dovuto ricominciare tutto». Avrebbe potuto andare ai domiciliari, ma dove? Non aveva una casa. «Quando ho saputo che si è impiccato, sono rimasto sconvolto. Mi pento di non essere andato a trovarlo anche a Frosinone. Ma cosa potevo fare? Avrei dovuto rinunciare a una partita di pallone di mio figlio? Potevo fare di più? Speravo di essergli stato utile, di essere riuscito a fare qualcosa. Ma l’unica cosa che poteva salvarlo davvero era uscire».
Il ragazzo antisociale che aveva già chiesto di donare gli organi
Quando Irene Testa, garante dei detenuti di Cagliari, è andata in visita nel carcere di Uta, ha notato un giovane con gli occhi azzurri che non le chiedeva niente, a differenza degli altri. Giovanni se ne stava seduto a guardare lo spazio di cielo tra le sbarre. Sulla branda, teneva un libro. Gli ho chiesto se stava bene, racconta, ma sembrava spaesato e il compagno di cella mi ha raccontato che giorni prima aveva cercato di uccidersi. L’avevano trovato con la corda stretta al collo ma gliel’avevano sfilata. Due giorni dopo la visita, si è impiccato. Si è sentita in colpa, Testa. Ho fallito, ha pensato, abbiamo fallito tutti. Li definiscono bipolari o schizofrenici o psicotici, ma i medici del carcere preferiscono bollarli come «antisociali», perché così sono «compatibili» con il carcere. Anche se spaccano tutto. Nel carcere di Sassari, su 536 detenuti, 400 sono in terapia psichiatrica. La madre di Giovanni, 24 anni, un giorno ha letto in una chat di un ragazzo che si era ucciso a Uta e ha pensato che poteva essere suo figlio e ha chiesto. Era suo figlio. Mesi prima lui le aveva detto: se mi succede qualcosa, voglio che siano donati i miei organi. Così, quando Giovanni ha deciso di farla finita, i suoi organi sono stati estratti e Irene si è chiesta se fosse giusto renderlo pubblico, se non fosse un tradimento, la rivelazione di una confidenza privata, di un ultimo desiderio. Il medico l’ha convinta. Ma certo che sì, è una cosa bellissima: ha salvato cinque vite questo ragazzo antisociale.
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5 agosto 2025
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