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Descalzi: «Energia, Eni più globale si apre la nuova frontiera dell’Asia grazie a tech e competenze»

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«Abbiamo unito con Petronas i nostri rispettivi asset in Indonesia e Malesia, costituendo una società da 300 mila barili al giorno di produzione, che diventeranno 500 mila, con 3 miliardi di riserve combinate e 10 miliardi di barili di potenziale esplorativo». La voce di Claudio Descalzi arriva dall’altra parte del mondo, dall’Asia. Ma quello che traspare dalle parole del numero uno di Eni è qualcosa di più di un accordo che contribuisce a rendere il suo gruppo, ma anche di riflesso il Paese, uno dei protagonisti nel mondo dell’energia globale. Sembra strano per un’Italia che non dispone di fonti e di risorse. Eppure, appare evidente la consapevolezza che quelle intuizioni divenute strategia dieci anni fa, oggi si dimostrano vincenti. E che forse ha pagato l’umiltà ma anche il coraggio. Mentre tutti parlavano di transizione energetica, non era scontato aggiungere alla parola “transizione” l’aggettivo «lunga, perché l’evoluzione dei mix energetici è un processo additivo di lungo termine, appunto, e non si possono sostituire dall’oggi al domani le vecchie fonti con le nuove».

Non c’era solo un problema di disponibilità e stabilità delle rinnovabili che «sono importanti ma hanno pur sempre bisogno di fonti di supporto come il gas e il nucleare». Ma andava tenuto presente un altro tema: la dipendenza. Problema chiaro a chi, come le squadre dell’Eni, era abituato a viaggiare per il globo esplorando e cercando fonti, e non comprando energia come se si fosse al supermercato. Il problema della dipendenza da altri. Altri Stati, altri produttori. Che, come si è capito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, potevano minacciare la sicurezza energetica dei Paesi. Dipendenza potenziale e reale come accade oggi con la Cina per le nuove tecnologie legate alle energie da rinnovabili.

Come si direbbe oggi, con una parola che tutti usano a proposito e a sproposito, la geopolitica conta. Contava dieci anni fa anche se si preferiva fare finta di niente. E conta oggi dopo che «Trump è sembrato dare la sveglia a tutti». Quell’accordo annunciato ieri frutto della scelta controcorrente di diventare i migliori esploratori al mondo quando l’Europa diceva che bisognava smetterla di usare fonti fossili a partire dal 2030, è uno dei tasselli di un qualcosa di più articolato e composito. Fatto di scelte tecnologiche, di innovazione, anche finanziarie, di competenze e team, di geopolitica intesa come la capacità di comprendere i propri partner che si tratti di Paesi o di aziende. L’Indonesia ha 285 milioni di abitanti. È uno dei grandi Paesi asiatici. Petronas è l’azienda malese delle celebri due Torri di Kuala Lumpur progettate da Cesar Pelli, per lungo tempo gli edifici più alti al mondo. Ma di esotico c’è ben poco nell’accordo siglato. «È un’operazione trasformativa, abbiamo creato una società di grandi dimensioni e dall’enorme potenziale».

Perché questa volta è diverso, di intese ne avete siglato a decine…
«Oltre alle dimensioni, siamo nell’area dell’Asia Pacifico, mercato in forte crescita. E quando si parla di crescita economica, si parla di energia che ne è il motore. L’aumento della domanda mondiale di gas sarà guidato dai mercati asiatici anche per il ruolo di fonte destinata a rimpiazzare il carbone (che, lo si dimentica, è tuttora la principale fonte di produzione energetica), con benefici in termini di abbattimento delle emissioni».

Tutto questo con quali capitali?
«La società si autofinanzierà e creeremo importanti sinergie non solo in termini di asset, ma anche in termini di know how e finanziari. È il nostro modello».

Create in pratica società satelliti che camminano da sole…
«Sì. Vede, per crescere puoi comprare altre aziende, come hanno fatto in tanti magari scambiandosi azioni, carta su carta. Oppure fare come noi che essendo tra i pochi al mondo capaci di esplorare e trovare nuovi giacimenti e risorse li valorizziamo facendoli diventare valuta di scambio. La business combination è quella creata con Petronas ma anche in Angola, Costa d’Avorio, Norvegia, Regno Unito».

Ma perché l’Eni, voi e non altri, di protagonisti nel mondo dell’energia ce ne sono…
«Competenze e tecnologia fanno la differenza. In molti erano dubbiosi che potessimo realizzare progetti di liquefazione del gas non sulla terra ferma ma al largo nel mare. Ci siamo riusciti prima in Mozambico, poi in Congo e adesso in Argentina. Non si tratta di progetti pilota sperimentali. In Argentina con YPF esporteremo 17 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2030».

Africa, Medio Oriente, Sud America, adesso l’Asia, ma l’Europa? Nel giro di un paio d’anni dovremo dire addio interamente al gas russo. Che ne sarà della sicurezza energetica dell’Europa e quindi nostra?
«Partiamo dall’oggi. Il gas arriva dalla Siberia artica con il progetto Yamal condotto da Novatek. Nel 2027 quel gas sarà deviato verso l’Asia e il Medio Oriente. Attraverso un riassetto dei trasporti marittimi è possibile che per l’Europa non ci siano scossoni».

Stiamo tranquilli?
«Fino a un certo punto. Se quel gas non arrivasse tutto all’Asia per distanza e vincoli logistici, strozzature nelle infrastrutture, Yamal ridurrebbe la produzione. E questo sì che creerebbe tensioni sui mercati che va ricordato sono globali. Dipende anche dalle scelte che farà l’Europa».

Lo sport europeo sembra esser dare le colpe all’Europa…
«Non si tratta di dare le colpe ma di fare scelte. L’Europa vuole sì o no la chimica, vuole le raffinerie? Non mi pare siano tempi nei quali ci si possa appoggiare ad altri, pena rinunciare alla propria sicurezza».

Quindi in nome della sicurezza addio alla transizione…
«Niente affatto. Si deve cambiare approccio. Le rinnovabili non possono fare tutto. Hanno bisogno di gas e nucleare a supporto. Non si può viaggiare a colpi di sussidi. Serve una strategia che permetta di allocare capitali verso business low carbon. Servono investimenti e strumenti finanziari».

Facile a dirsi, ma a farsi?
«Se dobbiamo guardare ad Eni, la strategia di allocazione dei capitali è stata decisiva. Abbiamo estratto dalla pancia e integrato con i nostri ampi parchi clienti attività che in questo modo hanno moltiplicato il loro valore, abbiamo potuto valorizzare, aprire a attirando soci internazionali. Tanto per capirci Plenitude e Enilive oggi valgono 24 miliardi e si autofinanziano. Abbiamo così potuto continuare a investire. La tecnologia costa soprattutto se vuoi farla tua, guardate l’intelligenza artificiale».

Ma voi vi occupate di energia…
«Sì, ma abbiamo bisogno di molta tecnologia digitale. Il nostro computer HPC6 è il più veloce al mondo esclusi quelli di Stato cinesi e americani. Al mondo, vorrei sottolineare. I nostri grandi sforzi in ricerca e sviluppo ci permettono di avere tecnologie proprietarie che una volta scorporate possono essere valorizzate come società satelliti da aprire ad altri soci. È successo con i biocarburanti, con la cattura della CO2 e in una società oggi abbiamo un socio come Blackrock. E potrei continuare con il supercalcolo quantistico e con la fusione nucleare che potremmo industrializzare già all’inizio del prossimo decennio grazie allo spin off del MIT di Boston CFS e a soci come Enea, UkAEA».

Mentre il mondo sembra in agitazione lei appare molto sereno…
«Il quadro mondiale è di instabilità. È indubbio. Ma per questo ti devi dare strategie che tendano a dare stabilità. Noi abbiamo iniziato ben prima dell’accordo di Parigi».

Ma il mondo intanto è cambiato.
«Certo, sapevamo che la strategia andava adeguata man mano che il mondo cambiava. Ma sapevamo di partire da una situazione dove il carbone era la prima fonte di energia al mondo e probabilmente lo sarebbe stato ancora per molto visto che ancora oggi lo è. Che il gas avrebbe avuto un ruolo. Che i prezzi del petrolio erano troppo volatili. Che la transizione non era come accendere e spegnere un interruttore ma un processo lungo nel quale combinare strategie di decarbonizzazione con la necessità di finanza per gli investimenti necessari alla transizione. Che la rivoluzione tecnologica non riguardava solo i colossi dell’hi-tech. Zero ideologia, tanto buonsenso. Oggi i risultati trimestrali così apprezzati dal mercato mostrano che siamo in grado di avere cassa abbondante, debito basso e trasmettiamo valore ai nostri soci. Sono circondato da persone ricche di capacità e forza, perché non dovrei essere ottimista?».

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