Home / Economia / Dazi, Stevanato sugli insediamenti produttivi all’estero: «Serve investire con coraggio e diventare più globali. Negli Usa vanno viste le occasioni»

Dazi, Stevanato sugli insediamenti produttivi all’estero: «Serve investire con coraggio e diventare più globali. Negli Usa vanno viste le occasioni»

//?#

«Bisogna investire con coraggio. E cambiare il modello di business, orientandosi di più su prodotti ad alto valore aggiunto. Senza esitare, se l’America attrae ma spinge anche sulle tariffe: va vista come un’opportunità, non come un problema». Franco Stevanato, 51 anni, presidente e amministratore delegato dell’omonimo gruppo dei contenitori farmaceutici, sede a Piombino Dese, nel Padovano, ma quotato da quattro anni alla Borsa di New York, ragiona a voce alta, all’indomani della semestrale della multinazionale, 1,1 miliardi di ricavi 2024 con utile netto a 118 milioni. Conti con un fatturato in crescita dell’8% sul pari periodo 2024, a 536 milioni, e un +42% di utile netto, a 56,2 milioni, in cui il gruppo vede ripagati i maxi-investimenti per aumentare la capacità sui prodotti ad alto valore aggiunto, da cui ora viene il 42% dei ricavi.
Esempio di scuola di chi negli investimenti per gli insediamenti produttivi all’estero ha creduto per tempo. Ad iniziare dagli Usa, incassando ora i dividendi, proprio mentre l’onda dei dazi raggiunge il settore farmaceutico, con la nuova minaccia del presidente Usa, Donald Trump, di tariffe al 250% sulle importazioni farmaceutiche, per riportare la produzione negli Usa.
Stevanato non ragiona di questo scenario: «Non sono in grado di dire: le dinamiche cambiano, oggi si è cristallizzata una tariffa al 15% e su quella ci stiamo muovendo». Ma è chiaro che qui l’asso nella manica è il nuovo stabilimento a Fishers, nello Stato dell’Indiana: «L’investimento è di 500 milioni di euro – dice Stevanato -. Ogni euro speso deve generarne uno di ricavi: l’attesa è per almeno 500 milioni. Ma succederà nel 2028: la capacità ora è al 10-15%, nonostante 400 colleghi già al lavoro. Dovremo pazientare ancora uno-due anni».

I dazi come cambiano il quadro?
«A regime Fishers deve servire il mercato americano. Nel 2025, tra tariffe e cambio sfavorevole del dollaro, abbiamo stimato un impatto di 5-6 milioni sul margine operativo lordo e di 15 abbondanti sul fatturato. Ma abbiamo confermato le attese a fine anno di un fatturato di 1.160-1.190 milioni e margine operativo lordo a 288-301. Stiamo lavorando per compensare le conseguenze e ce la stiamo facendo, come mostra il +8% sui ricavi nel secondo trimestre».

Come valuta l’accordo per i dazi Usa al 15%?
«Un po’ di mal di testa lo dà. Ma abbiamo fatto un buon lavoro sulla catena di fornitura e i nostri clienti, a volte abbiamo aumentato un po’ i prezzi in accordo con loro. Nel medio termine, con Fishers a pieno regime, li neutralizzeremo».

Resta il rischio sui farmaci non prodotti negli Usa e destinati a quel mercato.
«Abbiamo 13 siti in 9 Paesi e già da un po’ di anni abbiamo deciso che ciascuna delle tre regioni – Americhe, Europa e Cina – debba essere autonoma nella produzione, anche per il rischio dazi. L’obiettivo della politica americana è di portar dentro produzioni per garantire i loro lavoratori. E alla fine ci stanno riuscendo: le grandi case farmaceutiche, molto esposte con siti produttivi europei, stanno investendo e rientrando in America».

Ma con che effetto per l’industria farmaceutica italiana, che esporta 10 miliardi negli Stati Uniti? C’è un rischio di perdita di competenze e tecnologie?
«Parziale. Prendo l’esempio di Stevanato: abbiamo a Piombino Dese 2.400 persone, 700 a Latina, cento a Bologna, dove realizziamo macchine molto su misura. Fishers, che avremmo fatto in ogni caso, lo faremo più grande e distribuiremo sempre i più la rete produttiva, anche negli Usa e in Asia, per servire i mercati locali. Ma lo stavamo già facendo negli ultimi vent’anni. E il cervello resta qui: a Milano abbiamo un centro di ricerca e sviluppo sui dispostivi con 80 persone».

Saremo esposti ad una concorrenza dalla Cina?
«Sì, ma l’Europa non è ferma: le case farmaceutiche stanno investendo anche in America e Asia. Il dazio spinge il vento verso l’America, oggi, ma apre in prospettiva anche il fronte Asia. La conclusione è che bisogna essere sempre più globali e fornire le competenze nelle tre regioni: Europa, America e Asia».

Sembra un passo obbligato, l’ingresso negli Stati Uniti, per chi abbia in quel mercato risultati rilevanti.
«È così. La spinta per un insediamento già la si sentiva nel 2020 e la nostra quotazione alla Borsa di New York serviva ad avere i fondi per gli investimenti. Nei prossimi anni metteremo la massima capacità produttiva in Italia e negli Usa. Ma dovremo riaprire anche il capitolo del posizionamento in Cina. Bisogna stimolarsi molto ogni giorno».

Scelta che consiglia anche ai suoi colleghi che guardano agli Usa nell’era dei dazi?
«Bisognerebbe conoscere le singole aziende…».

Sì, ma siete nella condizione ideale per poter dire…
«Noi beneficeremo molto dal nostro insediamento produttivo. Abbiamo sorpassato i nostri concorrenti tedeschi e i clienti stanno lanciando molti prodotti. Questa scelta faticosa da un punto di vista finanziario e operativo sta ripagando molto».

Non è solo questione di dazi.
«Un hub produttivo così ci dà la possibilità di avere una quota di mercato più visibile, di esser riconosciuti fornitore principale e ambire a una quota di mercato del 40-50% con le case americane».

Una spinta da tener presente, per le grandi aziende un po’ in tutti i settori.
«Bisogna investire. Investire molto in capacità produttiva a livello globale, fuori dalle nazioni in cui si è nati. Noi i risultati li stiamo raggiungendo con i prodotti ad alto valore aggiunto; ma ci abbiamo impiegato dieci anni e con investimenti enormi: negli ultimi tre anni per 1,2 miliardi. Abbiamo aperto da cinque anni un tech-center a Boston che ci costa una decina di milioni euro l’anno. Ma ora il 42% dei ricavi viene da questi prodotti di gamma alta».

Ci sono colleghi imprenditori che la chiamano per chiederle consiglio se stabilirsi negli Usa?
«Sì e no… Non ho molto modo di confrontarmi. Ma ci sono già belle aziende venete molto attive da anni nel percorso di globalizzazione».

E cosa insegnano quei casi come il vostro?
«Che bisogna essere dinamici: non aspettare gli incentivi per fare gli investimenti. Nel nostro piccolo: quando abbiamo visto che per fare il salto ne servivano per più di un miliardo, abbiamo deciso – da impresa familiare, veneta, con più di 70 anni – di quotarci a New York, vendendo il 16% e raccogliendo, e reinvestendo, un miliardo. Lo abbiamo fatto molto umilmente, investendo proprio sulla storia di Stevanato group».

Ma la reazione dell’Europa, di fronte alla mossa americana per attrarre industrie e competenze quale dovrebbe essere, oltre a trattare? Fare la stessa cosa?
«Sì. Creare una ricerca e una rete di collegamento tra Università e imprese forti. E facilitare gli investimenti. Per il nostro stabilimento lo Stato dell’Indiana e la città di Fishers si sono mossi attivamente: ci hanno concesso il terreno e finanziamenti in dieci anni sulla formazione del personale, oltre al collegamento con l’università. Se investi, ti sostengono, con l’obiettivo di portarti da loro»


Vai a tutte le notizie di Padova

<!–

Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.–>

Iscriviti alla newsletter del Corriere del Veneto

8 agosto 2025

8 agosto 2025

Fonte Originale