Sono trascorsi quasi tre mesi dal «Liberation Day» — il 2 aprile — quando il presidente degli Stati Uniti, insediato alla Casa Bianca da meno di sei mesi, ha deciso di riscrivere le regole del commercio globale, innescando un’escalation di dazi e ritorsioni. Una mossa drastica, che ha avuto conseguenze immediate sulle relazioni internazionali e ha imposto agli alleati, così come ai rivali strategici, di rivedere le proprie posizioni. Trump ha rimescolato gli equilibri geopolitici e aperto una nuova stagione di negoziati, dai contorni ancora incerti. Come dimostra lo stop improvviso e immediato, ieri, al negoziato con il Canada.
Dopo il patto firmato con il Regno Unito, Trump ha espresso ottimismo sui progressi dei negoziati commerciali: dal consolidamento della tregua con la Cina, che per la verità in un post sul social Truth ha presentato come accordo già fatto, ai prossimi protocolli «con 4o 5 Paesi», tra cui l’intesa «imminente» con l’India. Secondo il Segretario al Tesoro americano Scott Bessent gli Stati Uniti stanno cercando accordi con circa 18 partner commerciali chiave. «Se riusciamo a siglare 10 o 12 accordi importanti su 18 allora penso che potremmo avere tutto definito entro il Labor Day», cioè l’1 settembre.
Il bilancio
Che cosa ha ottenuto (e cosa no) finora il neo protezionismo di Trump? Con Pechino, Washington ha siglato un accordo quadro per velocizzare le esportazioni cinesi di terre rare e magneti verso gli Stati Uniti, componenti essenziali per l’industria elettronica, l’automotive e il biomedicale. In cambio, gli Usa ridurranno alcuni dazi nei prossimi mesi, già scesi al 30% dopo la pace di Ginevra negoziata e firmata da Bessent (erano saliti fino a uno stratosferico livello del 145%, a cui la Cina aveva risposto con dazi del 125%). L’accordo con Pechino è fondamentale per l’economia americana, fortemente dipendente dall’import cinese.
L’accordo firmato l’8 maggio con il Regno Unito elimina le tariffe su auto, permettendo a Londra di esportare fino a 100 mila veicoli all’anno con una tariffa del 10%, prima al 25%). Stop anche ai dazi sui prodotti aerospaziali. In cambio la Gran Bretagna apre all’import di bovini, etanolo e altri beni agricoli dagli Stati Uniti. Le tariffe su acciaio e alluminio britannico per ora restano però al 25%.
Se finora il negoziato con l’Europa sembrava in alto mare, ieri la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, si è detta fiduciosa di poter chiudere la partita commerciale entro il 9 luglio, scadenza della moratoria che farebbe scattare dazi del 50% sull’import continentale. però «la scadenza del 9 luglio – secondo Trump – non è decisiva. Possiamo fare tutto quello che vogliamo: potremmo estenderla; potremmo accorciarla. Mi piacerebbe accorciarla. Mi piacerebbe mandare lettere a tutti e dire: congratulazioni, pagherete il 25%».
La scommessa
La strategia dei dazi di Trump, però, rappresenta una scommessa ad alto rischio sull’economia americana.I costi economici sono già evidenti. Nel breve termine, i dazi hanno creato nervosismo e volatilità sui mercati, listini Usa inclusi. Nel medio-lungo termine, però, potrebbero rallentare la crescita, aumentare l’inflazione strutturale e ridurre la produttività se incorporati come costi permanenti. Se gli accordi raggiunti portano a Trump benefici elettorali e geopolitici, restano molte incognite tecniche e legali sulla loro implementazione effettiva. Si attende, ad esempio, la valutazione sul merito del ricorso che ha congelato (per ora) la sentenza della Corte del Commercio internazionale di New York, che ha definito i dazi reciproci illegali.
L’economia americana è in una fase di transizione delicata. Nel primo trimestre il prodotto interno lordo è sceso dello 0,5%, in base alla rilettura finale dei dati. Pesa l’aumento delle importazioni per anticipare i dazi, ma anche il rallentamento della domanda interna, con la spesa de consumatori scesa ai minimi dal 2020. L’Ocse prevede che la crescita del Pil degli Stati Uniti rallenterà a quasi la metà del ritmo del 2024 nei prossimi due anni, passando dal 2,8% dello scorso anno all’1,6% nel 2025 e l’1,5% nel 2026 a causa dei «costi commerciali crescenti» determinati dai dazi all’importazione di Trump.
Le proiezioni
Nel lungo periodo il prezzo sarebbe molto più alto. Secondo le proiezioni del Penn Wharton Budget Model, un’iniziativa apartitica della University of Pennsylvania che fornisce analisi economiche sull’impatto fiscale delle politiche pubbliche, i dazi di Trump ridurrebbero il Pil di circa il 6% nel lungo termine e i salari del 5%. Per una famiglia di reddito medio rappresenta una perdita di 22 mila dollari nell’arco della vita. Questi numeri segnalano un impatto economico significativo, superiore a quello che si otterrebbe aumentando l’aliquota fiscale sulle società dal 21% al 36%, avverte l’istituto.
Il rischio stagflazione
L’aumento dei prezzi rappresenta il principale rischio alla strategia economica di Trump. A maggio l’inflazione americana è tornata a salire al 2,4% dal 2,3% di aprile, mentre l’inflazione core, che esclude i prezzi di cibo ed energia, è al 2,8% invariata rispetto ai 12 mesi terminati ad aprile. Per JpMorgan i dazi già imposti spingeranno i prezzi al consumo di 0,2 punti percentuali, con un rischio di recessione al 40%. L’impulso stagflazionistico (cioè alta inflazione e bassa crescita), derivante dall’aumento dei dazi è stato «il motivo della nostra revisione al ribasso delle previsioni di crescita del Pil per quest’anno», spiega la banca guidata da Jamie Dimon, indicando una crescita economica all’1,3% quest’anno, in calo rispetto alla previsione del 2% formulata all’inizio del 2025.
I tassi e il duello con la Fed
Tra le cose che Trump non ha ottenuto finora spicca il taglio dei tassi di interesse. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha ribadito più volte che non ha fretta di ridurre il costo del denaro, preferendo attendere segnali più chiari sull’evoluzione dell’inflazione e sull’impatto dei dazi, che si sono rivelati più estesi e destabilizzanti del previsto, sia sul commercio sia sulla fiducia degli investitori. La prudenza della banca centrale si traduce in un tasso di riferimento stabile al 4,5%, ben al di sopra del 2,15% della zona euro, e rappresenta uno dei principali fattori di attrito tra la Casa Bianca e la Fed.
Donald Trump non ha nascosto il suo disappunto. Da settimane attacca apertamente Powell, accusandolo di essere «too late», troppo in ritardo e troppo cauto. Secondo il presidente, la Fed avrebbe dovuto già da mesi imitare la Bce e avviare un ciclo di riduzione dei tassi per sostenere la crescita e contrastare gli effetti recessivi generati dall’aumento delle tariffe commerciali. La mancata reazione della Fed è, agli occhi di Trump, un freno al pieno dispiegamento della sua strategia economica, tanto che starebbe cercando di sostituirlo prima della fine del suo mandato, in scadenza a maggio 2026.
28 giugno 2025
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