Gli Stati Uniti hanno fatto la scelta dei dazi. Essa è inefficace e controproducente. L’aumento dei prezzi in dollari, se ridurrà temporaneamente le quantità importate, fallirà il duplice obbiettivo di rilanciare industrie nazionali in crisi da anni e di ricondurre all’equilibrio saldi con l’estero passivi da mezzo secolo: quello dell’export-import per un trilione di dollari, quello dei crediti e dei debiti in essere per 25 trilioni.
I dazi, da soli, non compensano la perdita di competitività del made in Usa. L’elasticità ai prezzi delle importazioni non può bastare. La perdita di competitività è dovuta al persistere dell’eccesso dei salari sulla produttività del lavoro, allo scemare del progresso tecnico, a profitti monopolistici, alla sopravvalutazione del dollaro. Il disavanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente è soprattutto riconducibile alla carenza di risparmio rispetto all’investimento, pur essa ampia e strutturale.
Che cosa dovrebbero fare gli Usa
Per riequilibrare i conti con l’estero gli Stati Uniti dovrebbero frenare la domanda interna con la politica monetaria (i tassi d’interesse reali sono bassi) e con la politica fiscale (deficit di bilancio e debito pubblico sono fuori controllo). In alternativa ai dazi dovrebbero contemporaneamente procedere a una svalutazione della valuta, controllata se coordinata con in Paesi creditori — Cina, Germania, Giappone — detentori di montagne di dollari.
Il consenso prima di tutto
Trump si rifiuta di far questo per ragioni di consenso. Addirittura intende bloccare l’immigrazione, sebbene in una economia drogata dall’eccesso di spesa la manodopera sia scarsa e il tasso di disoccupazione resti non lontano dai minimi storici. Pretende inoltre di costringere la Fed a tagliare i tassi dell’interesse nonostante la prospettiva pressoché certa di risalita dell’inflazione. L’inflazione è sollecitata dalla stessa ascesa dei prezzi esteri in dollari, dalle ridotte importazioni, dalla minore concorrenza innescate dai dazi. Il popolo americano vota con il portafogli e si ribellerà, come avvenne contro l’improvvido Biden, ma forse troppo tardi. Mal motivata, poco chiara nella definitiva attuazione, di difficile gestione amministrativa, la scelta di Trump sta già diffondendo nel Paese e internazionalmente una incertezza che si accentuerà. All’inflazione potrebbe quindi unirsi la recessione. Wall Street e altre Borse sono già cadute e i consumi ne risentiranno. Se la Fed potrà contrastare l’inflazione – qualora Trump non la conculchi! – i tassi dell’interesse saliranno e ne risentiranno gli investimenti.
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Gli errori da evitare
E il resto del mondo?
L’errore degli errori sarebbe di reagire sullo stesso piano, con la rappresaglia dei dazi. La crisi del 1929 scaturì da altri fattori, ma ad aggravarla contribuì la spirale protezionistica e autarchica inaugurata dagli Stati Uniti con la tariffa che i repubblicani Smoot e Hawley, mesi prima del cedimento borsistico di ottobre, proposero al loro parlamento per favorire l’agricoltura nazionale in eccesso d’offerta.
Di fronte al calo, eventuale, delle esportazioni verso gli Stati Uniti la Cina non avrebbe dovuto, e l’Europa se ne astenga, innalzare i dazi sulle merci d’oltre oceano. Dalla più stupida delle reazioni deriverebbero spinte recessive su scala mondiale, che la diffusione dell’incertezza inasprirebbe. Cina ed Europa dovrebbero invece cedere quote di commercio internazionale e continuare a finanziare i Paesi deficitari, Stati Uniti compresi. Proporrebbero così un loro ruolo di leader sensibili ai problemi globali: il ruolo che gli Stati Uniti per le loro debolezze economiche non sono più in grado di svolgere, ovvero rinunciano a svolgere per l’ignoranza manifesta di Trump verso quei problemi.
Il quadro in Europa
L’Europa, indotta da Maastricht e dal neomercantilismo tedesco, ha patito per oltre vent’anni l’inadeguatezza di domanda interna, con inutili avanzi di bilancia dei pagamenti, bassa crescita, capacità produttiva sottoutilizzata. Quindi dovrebbe limitarsi a compensare il calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti e ad assicurare finalmente il pieno impiego della propria capacità produttiva sostenendo la domanda globale.
Dovrebbe farlo non con le spese militari — già bastevoli a fini di deterrenza, inflazionistiche, foriere di tensioni e conflitti —, ma con gli investimenti da anni carenti in preziose infrastrutture civili: investimenti in grado di autofinanziarsi oltre il breve periodo se ad alto moltiplicatore di domanda, produttività, reddito, gettito fiscale.
Che cosa ha fatto l’Italia
Il governo italiano si è finora mosso con la necessaria prudenza, adoperandosi anche per persuadere Washington a intavolare trattative con Bruxelles. Al di là della normale cassa integrazione di breve periodo, non occorreranno speciali sussidi pubblici «spagnoli» per sostenere i settori a cui più direttamente sono rivolti i dazi americani. Sarebbe ancor più inopportuno — come Confindustria e financo l’opposizione sembrano invece proporre — coprire i sussidi con i fondi inutilizzati del Pnrr. Il Pnrr dev’essere orientato a investimenti maggiormente produttivi, superando colpevoli ritardi e inefficienze. Se i consumi interni non sostituissero le minori esportazioni verso gli Stati Uniti, i proprietari delle imprese colpite dai dazi potranno riallocare i capitali secondo le modifiche nei prezzi relativi e parte dei loro dipendenti potranno trovare occasione di lavoro in altri settori.
Il presupposto fondamentale e urgente è che la politica economica assicuri con investimenti pubblici la domanda globale necessaria al pieno utilizzo, non inflazionistico, delle risorse nell’intera economia. Di fronte alla instabilità radicata nel capitalismo è questo il compito che solo lo Stato può tentare di assolvere. Allocare le risorse tra gli usi produttivi spetta in primo luogo al mercato e alla privata iniziativa, che se ne deve assumere la responsabilità e i rischi.
16 giugno 2025
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