
Chissà se Giorgia Meloni è tornata con la mente ai giorni che hanno preceduto il suo viaggio a Washington. Quando, mentre tutto precipitava, si è immedesimata nel film sulle piaghe d’Egitto che stava vedendo e ha esclamato: «Ecco, noi stiamo all’invasione delle locuste». Non è stato un periodo facile per la premier, che ha vissuto momenti di sconforto nel vedere come le cavallette stavano distruggendo l’Occidente, l’Europa e dunque anche l’Italia. Così confidava i suoi stati d’animo agli amici più stretti, tranne liberarsi del malessere dopo qualche ora con forme spicce di autoconvincimento: «Vabbè, ce la farò». E allora si rimetteva all’opera. Perché l’esito del colloquio con Donald Trump non è stato frutto del «rapporto speciale» e della «simpatia» tra i due, ma del lavoro preparatorio che ha trasformato la premier in una studentessa universitaria, «impegnata — racconta chi l’ha vista da vicino — a memorizzare una ventina di materie in un colpo, pur sapendo che avrebbe dovuto discutere solo alcuni di quei dossier».
Dati, soluzioni, ipotesi alternative: tutto mandato a mente. Meloni era conscia che l’appuntamento si preannunciava «senza rete», vista «l’imprevedibilità dell’interlocutore». E doveva celare il suo perenne stato d’ansia quando telefonava al presidente degli Stati Uniti, che tra le tante motivazioni economiche e politiche con cui spiegava la sua ostilità verso l’Europa, ne aggiungeva una personale: «Tifavano tutti per Joe Biden». E appena chiudeva con Trump, chiamava Ursula von der Leyen, con la quale ha pure sventato alcune trappole disposte sul sentiero. Nel frattempo ha tenuto il profilo basso. Per settimane ha taciuto, incurante delle critiche di chi in Italia le chiedeva di replicare alle bordate di «The Donald». Silente persino quando da Parigi l’hanno attaccata perché con il suo viaggio a Washington stava per «mettere a rischio l’unità dell’Europa».
Ora invece Meloni ha più o meno settanta giorni per riuscire a realizzare quel «ponte» tra le due sponde dell’Atlantico che è indispensabile per tenere uniti il Vecchio e il Nuovo continente. Il suo obiettivo è ricevere Trump a Roma per farlo incontrare con von der Leyen prima del vertice Nato del 24 e 25 giugno all’Aia. Ecco la sua missione, su questo ha spinto con il presidente americano. Ci tiene non solo per ragioni di prestigio ma anche per evitare che l’appuntamento in Olanda confonda due piani diversi: le relazioni economiche e l’alleanza militare. Sulla quale la premier sa che i problemi sono tutt’altro che risolti, perché «per l’Italia le spese per la Difesa non potranno aumentare solo fino al rapporto del 2% di Pil», rivela un ministro di alto rango dopo aver parlato con l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare Nato: «Il 2% è l’inizio».
Un problema per volta. Intanto Meloni ambisce a essere la facilitatrice del dialogo tra Washington e Bruxelles. Pur di riuscirci, nei «giorni delle locuste» aveva incontrato Matteo Salvini per chiedergli di modificare giusto un po’ la sua narrazione: ha chiara la linea politica dell’alleato, «ma se devi menare, mena sull’Europa senza attaccare personalmente von der Leyen. Lasciala stare». Niente nomi, «nemmeno quello di Emmanuel Macron, ti prego». Stando così le cose, figurarsi se la premier avrebbe replicato ai capi delle opposizioni in Italia. Alle organizzazioni di categoria, ricevute a palazzo Chigi poco prima di volare negli Usa, aveva spiegato il motivo per cui era rimasta estranea al «festival delle dichiarazioni» contro Trump, di moda nelle cancellerie d’oltralpe: «Non servono a niente e non risolvono il problema».
In attesa di saldare il rapporto con il futuro governo tedesco, complice una rete di diplomazia parallela, Meloni rafforzava il suo sistema di relazioni con gli Stati Uniti e anche con il Regno Unito. Ché poi è la trilogia «Occidente, Europa, Ucraina» esposta a Trump nel colloquio riservato e in conferenza stampa. Questi tre capisaldi secondo la presidente del Consiglio sono «il modo migliore per tutelare l’interesse nazionale». È chiaro che Meloni deve completare l’ultimo miglio prima di considerare conclusa la sua missione, alla quale lavora da quando due mesi fa propose tra lo scetticismo generale «un vertice tra Stati Uniti ed Europa» per scacciare «le locuste». Poi toccherà a Trump la decisione finale.
18 aprile 2025
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